Discours de remerciement – Rome, 15.11.1984 (italien)

Suisse

Jean Starobinski

Prix Balzan 1984 pour l'histoire et la critique des littératures

Pour son apport fondamental à la connaissance de la culture française et européenne à travers des recherches dans les domaines de la littérature, de l’histoire, de la psychanalyse et de la linguistique, qui témoignent d’une intelligence subtile et d’une connaissance approfondie de nombreux auteurs de différentes périodes.

Signor Presidente della Repubblica Italiana, Signori Presidenti, Eccellenze, Signore e Signori,
la Fondazione Internazionale Balzan, il Consiglio di Fondazione, il Comitato Generale Premi e le eminenti personalità che lo presiedono vogliano accogliere l’espressione della mia commossa riconoscenza. Abbiano la certezza che l’onore eccezionale conferitomi suscita la mia profonda gratitudine. Il fatto di essere stato oggetto di una simile scelta mi ispira un senso di gioia misto ad un altro sentimento: quello di una accresciuta responsabilità. La vostra scelta, infatti, non è andata semplicemente ad un’opera ormai compiuta; mi sembra riferirsi anche, come un atto di fiducia, ad un lavoro ancora da compere che costituisce per me un impegno molto sentito.
In questa città, Signor Presidente della Repubblica Italiana, come potrei non richiamare alla memoria tutto ciò che contribuì a tessere quei vincoli di affetto che mi legano all’Italia? Questi legami si formarono dapprima a Ginevra, con alcune di quelle personalità che vi avevano trovato rifugio negli anni difficili. Penso ad un maestro, Guglielmo Ferrero, che scrutava appassionatamente, nei suoi corsi, il concetto di legittimità politica; penso ai compagni di studio la cui amicizia da allora non smise mai di assistermi. Vennero successivamente, e questa volta in terra italiana, gli incontri, gli scambi intellettuali, i lavori in comune: essi si sono andati moltiplicando al punto che non potrei neppure tentare di enumerarli senza rischiare di commettere dimenticanze o ingiustizie. E proprio in questo Palazzo, Signor Presidente dell’Accademia dei Lincei, tengo a dirLe quanto io sia felice ed orgoglioso di essere presente anche come socio straniero. Infine, non dimentico che nel 1978, per il bicentenario della morte di Rousseau, la nostra Facoltà di lettere e l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana si associarono nell’impresa comune di un colloquio e di una pubblicazione.
La Fondazione Balzan onora per la seconda volta, dopo Jean Piaget, un membro della comunità accademica ginevrina. Ed è anche a nome di quest’ultima che esprimo i miei ringraziamenti. Vorrei dire, in quest’occasione, quanto io debba all’Università di Ginevra. Poiché una tale circostanza induce ad uno sguardo retrospettivo, consentite che io cerchi di rievocare per un istante quel giorno dell’autunno 1913 in cui mio padre, giunto da Varsavia, fu accolto alla Università di Ginevra. Una simile accoglienza non era cosa scontata in tutti i paesi. In ogni caso, non certamente nella Varsavia di allora. A questo motivo di riconoscenza verso l’Alma Mater ginevrina se ne aggiunge un altro: vi incontravo Marcel Raymond il cui insegnamento e la presenza umana mi rivelarono la poesia e quella particolare ansia – che in lui era di natura religiosa – che accomuna l’opera critica e la creazione letteraria. Se ci accingiamo ad interrogare la cultura e la letteratura dobbiamo farlo senza perdere di vista le poste maggiori dell’esistenza, in assoluta modestia, ma con una ostinata perseveranza: questa lezione affiancava all’acuto ascolto dei testi la perenne vigilanza dinanzi al nostro momento storico.
Sono ancora debitore di altro all’Università di Ginevra: di avervi acquisito, durante i miei studi di medicina, una chiara coscienza delle condizioni obbiettive della conoscenza scientifica. Ho intravisto le discipline sperimentali: ho visto che ci si poteva basare sui loro risultati pur considerandoli provvisori; ho imparato la resistenza tenace che i fatti oppongono alle nostre costruzioni teoriche. Più tardi, all’Università di Losanna, il mio tirocinio di psichiatra mi ha fatto constatare ciò che, dell’uomo, era accessibile ad un approccio biologico e ciò che, invece, nei suoi atti di relazione, non si lascia ridurre ad un sistema di oggetti naturali.
Linguaggi letterari, linguaggio scientifico: il privilegio di un lungo periodo di formazione (che si è prolungato a Johns Hopkins con dei colleghi come Georges Poulet e Leo Spitzer nel campo dell’arte di interpretare, come Owsei Temkin nel campo della storia delle scienze mediche) mi ha portato a partecipare alle “due culture” di cui si è potuto dire che la loro coesistenza sia uno dei tratti caratteristici della nostra civiltà. Questa opposizione Jean Piaget la vedeva manifestarsi all’interno stesso delle scienze sociali ed umane, ove egli tracciava una linea divisoria fra scienze nomotetiche (in cui annoverava la psicologia genetica) e scienze descrittive, affiancate dall’obbligo di sfociare in leggi necessarie: egli collocava in questo gruppo meno disciplinato le scienze storiche, l’estetica, la critica letteraria, ecc. La nostra civiltà, senza dubbio, ci impone questo bilinguismo come un fatto compiuto e spesso in una forma conflittuale. Sono persuaso che questo conflitto possa essere superato se si è capaci di riconoscere l’unità dell’uomo che alimenta e produce questo duplice linguaggio. L’unità deve essere colta alla radice, nella scelta dei mezzi con cui l’individuo instaura la propria relazione con altri uomini: la voce poetica o il discorso coerente, razionale, universalizzabile. Un grande filosofo contemporaneo, Eric Weil, insisteva sul fatto che la scienza e la filosofia debbano essere comprese come opera degli spiriti risoluti i quali, senza una prova preliminare della necessità della propria scelta, si sono decisi per la ragione. Ogni enunziato scientifico, per il fatto stesso della sua sottomissione a regole di coerenza, suppone un primo impegno a favore della verità divisibile, vale a dire un atto etico. Lungi pertanto dall’attenderci che la scienza fondi una morale, una politica, una storiografia, un discernimento critico, occorre riconoscere che ogni scienza degna di questo nome presupponga una opzione di ordine morale.
Vengo ora alla critica ed alla storia: la morale, di cui ho appena parlato, è il rispetto di una autorità. Orbene le autorità sono cambiate nel corso della storia. Il nostro compito di critici, di storici, non dovrebbe forse consistere nel decifrare ed interrogare le scelte e gli atti significativi che hanno contrassegnato la cultura umana, nonché le autorità che hanno orientato queste scelte? Il nostro compito di storici, in questo caso, come pure il nostro compito di critici non sta nell’applicare metodi irreprensibili nei confronti della scienza, bensì nel chiederci, risalendo più a monte, perché, in quali circostanze e con quali speranze gli uomini si sono fatti inventori di metodi ed hanno scelto il linguaggio della scienza. Di conseguenza, perché non dirlo qui, cercando di meglio comprendere in epoche diverse le mire fondamentali degli scienziati, degli artisti, dei gruppi sociali e dei loro rappresentanti, la critica, quale io me l’immaginavo nel modo più rigoroso, iscrive la propria attività nel prolungamento del programma che Giovambattista Vico assegnava alla “Scienza nuova”, alla “nuova arte critica”: egli le chiedeva, esattamente, di essere “una filosofia dell’autorità”. Ed è forse sempre a Vico che devo la convinzione che, oltre al carattere relativo delle autorità mutevoli che hanno dominato lo spirito degli uomini nel corso dei secoli, c’è qualcosa come un gusto del vero, un desiderio del senso, che debbono animarci e che travalicano il relativismo culturale.
Una filosofia dell’autorità: più modestamente la critica letteraria si volge verso gli autori; essa cerca di scoprire ciò che per loro costituiva autorità; tenta di discernere, con “l’occhio della lince” nella struttura dei testi, ciò che per noi persiste nell’imporre l’autorità del bello o quella della saggezza, o quella del sentimento, del sogno e dell’immaginario. Questa filosofia dell’autorità, occorre precisarlo, quand’anche intenda esercitare, senza garanzia, le prerogative del giudizio e del gusto, abdica a favore di qualsiasi autoritarismo normativo. Si richiamerebbe piuttosto, ma con maggior serenità, a ciò che la nostra epoca ha chiamato la critica delle ideologie – senza sottrarre se stessa a tale giudizio. Quando penso alla magnifica parola latina “auctor” che implica, nell’ordine letterario, un aumento dei poteri della lingua, oso chiedermi se il critico e lo storico non debbano a loro volta nutrire l’ambizione di fare un lavoro d’autore, di modo che i monumenti della parola umana, per loro tramite, vengano richiamati, nella loro stessa lontananza, a tutta la loro presenza. Dedicandosi alla passione di interpretare, per cui si assoggetta alla voce di un altro, il critico scopre che la propria interpretazione ritorna su di lui e che egli deve assumersi il rischio, alla fine, di parlare da solo con la sua stessa voce.
Sarà egli ascoltato? Non può mai esserne certo. Ma la risposta che avete data a questo quesito, per il critico e lo storico che io sono e per tutti coloro che lavorano in altri “studioli” nel palazzo della critica, è il più prezioso degli incoraggiamenti.

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