Discorso di ringraziamento – Berna, 18.11.1997

USA/Sri lanka

Stanley Jeyaraja Tambiah

Premio Balzan 1997 per l'antropologia sociale

Per la penetrante analisi socio-antropologica dei problemi fondamentali della violenza etnica nel Sud-Est asiatico e per gli studi originali sulle dinamiche delle società buddiste, che hanno aperto la strada a un approccio socio-antropologico innovativo e rigoroso delle dinamiche interne di diverse civilizzazioni.

Pare che io sia il primo antropologo sociale e culturale a ricevere questo prestigioso e generoso premio, che accetto più che come un’onorificenza personale, come il riconoscimento di quello che la mia disciplina ha da dire sul genere umano nell’insieme, sulla sua molteplicità, sulla densità e la problematicità delle civiltà che ha prodotto.

Nello stesso tempo, voglio sottolineare quello che il premio rappresenta per me, anche se una buona fetta me ne verrà, ahimè, sottratta dal fisco dell’Uncle Sam. Quello che ne rimarrà mi faciliterà il ritiro dall’Università di Harvard, permettendomi di dedicare interamente il tempo che mi resta al completamento delle mie ricerche e dei miei progetti scritti. Questo sarà per me il modo migliore di festeggiare, rendere omaggio e dare un senso al bel gesto della Fondazione Balzan.

Negli ultimi anni, in molte regioni del globo – soprattutto nell’ex Unione Sovietica, in Europa orientale, nell’Asia meridionale e sud-orientale, in Africa e in Medio Oriente – sono esplosi movimenti etichettati come etnico-nazionalistici, e conflitti cosiddetti etnici. Dal 1983 mi sono impegnato molto nella descrizione e nell’ interpretazione – con particolare riferimento all’Asia meridionale e sudorientale – delle sfide lanciate dai movimenti etnico-nazionalisti agli stati nazionali post-coloniali, sfide alimentate dalle tensioni fra maggioranze e minoranze nelle società pluraliste, e tensioni a loro volta esasperate da una democrazia partecipativa competitiva che le trasforma in strumento essenziale di conquista del potere e di accaparramento delle risorse. La violenza come modo di affermarsi in politica è diventata un fenomeno a tal punto endemico e sistematico in molti paesi, che è indispensabile che gli studiosi di scienze sociali ne analizzino gli sviluppi.

L’identità come appartenenza religiosa, linguistica, territoriale ed etnica è diventata un’etichetta con la quale un gran numero di persone vengono mobilitate nell’ arena politica, in quanto gruppo sociale, con un obiettivo che è l’accaparramento delle risorse, istruzione, lavoro e capitali, sul piano materiale come sul piano simbolico. Per di più, dobbiamo confrontarci con la sconcertante ammissione che, se il processo di sviluppo economico crea ricchezza, vantaggi, e stimola gli spostamenti di popolazioni in cerca di lavoro, simultaneamente genera anche disuguaglianze nella distribuzione – con le carenze che ne derivano -, tensioni sociali, conflitti etnici.

Oggi dobbiamo riflettere tutti al modo di salvaguardare la sopravvivenza politica delle società pluralistiche multiculturali, immaginare nuove strutture di coalizione politica, condivisione del potere, soluzione dei conflitti e coesistenza nella tolleranza, e saper conciliare interessi nazionali o federali con quelli di regioni e collettività subnazionali.

A questo proposito, vorrei accennare a un fenomeno complesso e controverso, con il quale molti paesi, soprattutto in Asia, ma anche in Occidente, devono misurarsi. Si tratta del modo in cui lo stato (o lo stato nazionale) deve e può porsi nei confronti della religione, o più spesso delle molteplici religioni praticate all’interno dei suoi confini. I concetti di “secolarismo” e “secolarizzazione” traggono la loro origine storica e filosofica dalle culture occidentali. Il grande quesito che molti asiatici si pongono sul rapporto fra religione e politica è questo: sapendo di dover tentare di capire e valutare motivi di un rifiuto del secolarismo occidentale da parte di alcune loro comunità religiose, si chiedono con quale principio politico esso possa essere sostituito in un’arena dove numerose comunità di fede ed esigenze politiche e sociali diverse – che a loro volta comprendono settarismi in rivalità fra loro – si combattono a vicenda, accampando pretese che rischiano di mettere in pericolo la pace pubblica e di suscitare conflitti ,violenze, discriminazioni e disuguaglianze fra quei cittadini che, per principio, dovrebbero invece godere tutti degli stessi diritti civili e umani, in una convivenza pacifica.

C’è poi un’altra tendenza, che va richiedendo un’attenzione crescente. Si tratta delle enormi migrazioni transnazionali, dovute a vari motivi: a ricerca di un lavoro nei più prosperi paesi industrializzati, con lo statuto di lavoratori residenti o immigrati; gli spostamenti forzati di persone in fuga dalle guerre civili, dai pogrom della pulizia etnica, dai genocidi. In poche parole, si assiste a un’intensificazione della nascita, in molti luoghi, di varie diaspore, coinvolte in complesse interazioni interpersonali e interculturali sia con le società che le ospitano, sia con quelle da cui provengono. Nei confronti delle società ospiti, queste interazioni implicano fra l’altro processi sociali di adattamento e di contestazione, nonché la riproduzione delle tradizioni di pari passo con ibride trascrizioni del vecchio e del nuovo. Nei confronti delle società d’origine, le interazioni si manifestano attraverso pellegrinaggi in patria, invii di denaro, e un impegno nostalgico e problematico nella politica locale. Queste due tendenze parallele e connesse meritano un’analisi approfondita, in particolare per quanto riguarda sia le dimensioni e l’intensificazione delle migrazioni transnazionali, sia la rivoluzione moderna dell’informazione (la tecnologia della televisione, delle cassette video e audio, e Internet) che consente una comunicazione veloce, addirittura immediata, a grande distanza. Queste tendenze sono tanto potenti da influenzare le interazioni pluralistiche e le percezioni interculturali delle persone al punto da contraddire le affermazioni di alcuni eminenti profeti politici di sventura, che negli Stati Uniti hanno dichiarato che alla fine della guerra fredda sarebbe inesorabilmente seguito un nuovo “scontro delle civiltà”, un conflitto fra società separate da fondamentali e profonde differenze di cultura, lingua, religione e tradizione, e che il blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti e dall’ Europa, si sarebbe ripiegato nell’ isolazionismo, a salvaguardia dei propri interessi.

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