Filosofia analitica e vita umana: Roma, 21.11.2008 – Forum

USA/Serbia

Thomas Nagel

Premio Balzan 2008 per la filosofia morale

Per i suoi fondamentali e innovativi contributi alla teoria etica contemporanea, sia nell’ambito delle scelte personali e individuali sia nell’ambito delle scelte collettive e sociali. Per la profondità e la coerenza della sua originale prospettiva filosofica, incentrata sulla tensione essenziale fra un punto di vista oggettivo e impersonale e un punto di vista soggettivo e personale. Per l’originalità e la fecondità del suo approccio filosofico ad alcune fra le più importanti questioni di vita contemporanee.



Nella seconda metà del ventesimo secolo, il periodo in cui ho iniziato ad occuparmi di filosofia, essa ha assistito ad una complessa attività e crescita in svariati settori. L’aspetto più evidente nella tradizione analitica in cui è avvenuta la mia formazione è la particolare attenzione dedicata al linguaggio, sia quale argomento di per sé di notevole importanza filosofica, sia quale via d’accesso alla comprensione filosofica di altri temi, dalla metafisica all’etica. Personalmente non ho mai lavorato nell’ambito della filosofia del linguaggio, ma il bagaglio culturale costituito dalla formazione in questo tipo di filosofia ha influenzato il mio modo di pensare e scrivere. 

Per via dei tre istituti universitari presso i quali ho studiato, sono entrato in contatto con i tre rami fondamentali della filosofia analitica. Ero studente alla Cornell University nel periodo in cui il suo dipartimento di filosofia era dominato dall’influenza di Ludwig Wittgenstein tramite la presenza del suo allievo e seguace Norman Malcolm. Abbiamo studiato con grande intensità gli ultimi scritti, editi e inediti, di Wittgenstein, assimilandone il metodo di svelare come molti problemi filosofici nascano da equivoci sul funzionamento del linguaggio. Dopo la laurea sono andato a Oxford, all’epoca in cui J. L. Austin, Paul Grice e altri ancora stavano dedicando grande attenzione ai dettagli precisi di funzionamento del linguaggio naturale ordinario, insistendo sulle sottigliezze in esso contenute, in contrasto con la semplificazione eccessiva delle teorie generali espresse in un lessico filosofico artificiale e spesso oscuro. Dopo due anni trascorsi a Oxford mi sono trasferito a Harvard per terminare il dottorato di ricerca, e lì ho incontrato l’approccio più sistematico e logico al linguaggio, rappresentato da W. V. Quine, che derivava dal lavoro di empiristi logici quali Carnap e Russell.

In realtà non sono un seguace di nessuna di queste tradizioni, ma esse hanno costituito l’ambiente intellettuale in cui mi sono trovato a lavorare, molto diverso da quello della filosofia continentale dell’epoca, caratterizzata da forti elementi di marxismo, esistenzialismo e fenomenologia. Per temperamento, sotto sotto ero attratto da alcuni aspetti di quei movimenti continentali – come l’utopismo ugualitario di Marx, il senso dell’assurdo degli esistenzialisti e l’ineluttabilità del punto di vista soggettivo della fenomenologia – ma ho coltivato questi interessi in un contesto analitico.

L’attenzione al linguaggio portava con sé degli standard di chiarezza concettuale e un’insistenza sull’accurata verifica delle ipotesi filosofiche mediante argomentazione e controargomentazione. Ma su questo sfondo ci sono tre ampi sviluppi della filosofia analitica che ne segnano la storia relativamente recente e hanno avuto per me un’importanza più concreta. Uno di questi è la stretta relazione fra filosofia e scienza. Un altro è il grande ritorno in auge della filosofia morale, politica e del diritto. E il terzo è il ritorno ad una rispettabilità perlomeno parziale della Lebensphilosophie – la riflessione filosofica sulle questioni basilari della vita e della morte.

L’intimo legame della filosofia analitica con le scienze naturali e la matematica è tipico dell’ultimo dei tre rami della tradizione a cui ho fatto riferimento poc’anzi: quello dell’empirismo logico. Di fatto esso ha dato origine alla logica matematica, che attualmente è una branca della matematica più o meno indipendente dalla filosofia. In questa corrente dominante della filosofia analitica è presente una tendenza ad assegnare alla filosofia il ruolo di forma più astratta e generale della comprensione scientifica del mondo. Il lato positivo di questa tendenza consiste nel richiedere a chi è interessato alla filosofia un po’ di conoscenza delle scienze naturali; ne risulta che l’alfabetizzazione scientifica e matematica dei filosofi analitici è relativamente elevata, di solito ben superiore a quella storica o artistica. Ma il lato negativo è che spesso i filosofi analitici sono proclivi allo scientismo, ossia alla visione in base alla quale le scienze naturali, la matematica e la logica nello stesso tempo definiscono le domande che ha senso porre e forniscono gli unici metodi di vera comprensione, qualunque sia l’argomento. Questo, a mio parere, è un ostacolo alla piena comprensione di noi stessi, in particolare, e limita la nostra capacità di occuparci seriamente delle domande che riguardano i valori, di qualsiasi tipo.

Da queste premesse si sviluppa il mio lavoro nell’ambito della filosofia della mente. Credo che la filosofia ci consenta di capire come mai la mente non può essere adeguatamente compresa in base ai tipi di teoria che hanno avuto così tanto successo nell’esplorazione del mondo fisico dai tempi della rivoluzione scientifica: per il semplice fatto che quelle teorie sono state sviluppate per spiegare un tipo di fenomeno molto diverso. Il problema del rapporto fra esperienza soggettiva e realtà oggettiva è stato una questione fondamentale della filosofia fin dai suoi inizi, ma ai nostri giorni ha subito gli effetti della crescente autorità delle scienze fisiche, spintasi fino ad una comprensione degli esseri viventi mediante la teoria evolutiva e la biologia molecolare. A molti teorici è sembrato che l’idea per cui la mente possa in qualche modo essere spiegata come parte del mondo fisico, per mezzo di una combinazione di analisi funzionale behavioristica e identificazione neurofisiologica, fosse il passo successivo nell’avanzata della fisica verso il raggiungimento di una teoria valida per qualsiasi fenomeno.

Mentre sono convinto che la ricerca di una concezione della realtà sempre più oggettiva e sempre meno attaccata alle forme particolari dell’esperienza sensoriale umana sia una grande manifestazione delle capacità della ragione umana e del suo anelito alla trascendenza, credo che tale ricerca finisca inevitabilmente per trascurare qualcosa di molto importante. Questo era il senso di un mio vecchio articolo il cui titolo contiene già l’intera argomentazione: “Cosa si prova a essere un pipistrello?”. Il carattere soggettivo dell’esperienza umana, o l’esperienza di un tipo particolare di creatura con una visione individuale del mondo, non può essere compreso solo in termini di comportamento o di funzionamento fisico del sistema nervoso centrale, nonostante questi tre elementi siano inestricabilmente connessi fra loro. 

L’effettivo problema consiste nel cercare di capire questa connessione in un modo che non elimini l’aspetto irriducibilmente soggettivo della realtà mentale, e anche nel chiedersi quale concezione dell’ordine naturale possa rendere giustizia al fatto che la più oggettiva descrizione del mondo fisico non può essere una descrizione completa di ciò che in esso si trova. Questo è un problema per il futuro e credo che nessuno dei nostri contemporanei possa aspettarsi grandi progressi sull’argomento nel corso di questa vita. La ricerca di una comprensione fisicalistica del mentale è dovuta ad una naturale debolezza umana: il desiderio di conclusione – raggiungere una soluzione usando gli strumenti disponibili prima di uscire di scena – e un rifiuto di riconoscere che siamo ad uno stadio primordiale nel progresso della comprensione umana. Ci vorranno parecchie generazioni di intellettuali per fare progressi nel problema mente-corpo.

Passando a parlare di etica, ho avuto la grande fortuna di essere coinvolto in una sua rinascita, che ha trasformato la filosofia. All’epoca in cui ho cominciato i miei studi, la predominanza dell’analisi linguistica significava che la maggior parte dei filosofi analitici concentrava il proprio interesse esclusivamente sulla metaetica – l’analisi del linguaggio morale e della logica dei concetti morali – anziché sulle questioni concrete di giusto e sbagliato, buono e cattivo, giustizia e ingiustizia. Era opinione comune, infatti, che non ci fosse modo di riflettere razionalmente sulle questioni morali vere e proprie. Uno dei miei insegnanti alla Cornell era John Rawls, che aveva da poco superato i trent’anni e pubblicato solo due articoli, ma era impegnato in un progetto di teoria morale concreta – la difesa di determinati principi di giustizia per una moderna democrazia liberale – che col suo esempio avrebbe contribuito molto più di ogni altro lavoro del ventesimo secolo a riportare il pensiero morale al centro della filosofia. La particolare attenzione rivolta da questo lavoro alle questioni istituzionali, compresi i problemi di carattere sociale, economico e giuridico, ha fatto sì che i filosofi riprendessero a ragionare in modo sistematico sui problemi politici del loro tempo.

Gli inizi degli anni ’50 hanno visto un graduale sviluppo dell’interesse filosofico per una teoria morale concretamente utilizzabile e per le questioni politiche attuali. Elizabeth Anscombe ha scritto a proposito della moralità della guerra e della distinzione fra combattenti e non combattenti, una questione cruciale nell’era nucleare della guerra fredda, caratterizzata dal concetto della Mutually Assured Destruction, la distruzione reciproca assicurata. H. L. A. Hart ha scritto sull’imposizione dei precetti morali e ha discusso con Patrick Devlin la legittimità delle leggi contro l’omosessualità, la pornografia e la prostituzione. Ma non sono stati solo i cambiamenti intellettuali a produrre il risveglio della filosofia morale e politica. I movimenti per i diritti civili, la guerra del Vietnam e i conflitti in tema di aborto e omosessualità hanno ottenuto maggior spazio nel dibattito pubblico negli Stati Uniti degli anni ’60, e diversi filosofi morali, politici e del diritto hanno cominciato a scrivere e a tenere lezioni su queste questioni, in parte per rispondere agli interessi degli studenti e in parte perché un certo grado di impegno sembrava obbligatorio in un’epoca inquietante dal punto di vista politico. 

Ho iniziato a insegnare a Berkeley, proprio nel periodo e nel luogo in cui esplodeva il movimento studentesco. In seguito mi sono trasferito a Princeton, dove sono stato coinvolto nella realizzazione e nella direzione di una rivista chiamata Philosophy & Public Affairs, il cui titolo è emblematico per quegli sviluppi, e che ha svolto un ruolo significativo di trait d’union fra la filosofia e le questioni contemporanee di interesse pubblico. Da allora, nei miei scritti, ho affrontato anche questi argomenti: guerra, tasse, privacy, assistenza alle minoranze, ineguaglianza globale, libertà sessuale, religione e stato ecc. Il mio incarico congiunto alla New York University, sia presso il dipartimento di filosofia che alla Law School, riflette quegli interessi.

Nell’ambito della teoria etica, come in quello della metafisica e dell’epistemologia, mi sono occupato della relazione fra il punto di vista dell’individuo e il punto di vista trascendente e oggettivo rappresentato dall’imparzialità morale. Questo rapporto era già stato un argomento del mio primo libro, La possibilità dell’altruismo, mutuato dalla mia tesi di dottorato, ma è poi ricomparso in varie forme nei miei scritti successivi. La tensione fra il fertilissimo impulso trascendente della ragione umana e la prospettiva soggettiva che si lascia alle spalle, e che con esso deve coesistere, è fonte di problemi filosofici nel campo della metafisica, dell’epistemologia, dell’etica, della teoria politica e nella comprensione delle azioni umane. Ho discusso più approfonditamente tali parallelismi in Uno sguardo da nessun luogo, ma l’argomento viene anche trattato in Questioni mortali, I paradossi dell’eguaglianza e L’ultima parola: contro il relativismo. Nell’etica e nella teoria politica il contrasto dei punti di vista è alla radice delle questioni tradizionali relative al rapporto interesse individuale e benessere collettivo, nonché della domanda su quale forma e quale grado di imparzialità costituiscano la base adeguata dell’etica e della giustizia politica. Ho scritto su questo tema facendo riferimento alle teorie hobbesiane, utilitaristiche e kantiane relative ai fondamenti della morale, interessandomi soprattutto di come sia possibile riconciliare l’aspirazione alla riduzione dell’ineguaglianza sociale ed economica con la naturale parzialità che noi tutti proviamo nei confronti di noi stessi e di chi ci sta particolarmente a cuore.

La prospettiva morale positiva che ho cercato di sviluppare dipende in maniera cruciale dalla capacità umana di osservarsi dall’esterno, come uno fra gli altri. Se si vuole affermare il proprio valore da questo punto di vista oggettivo, unitamente all’importanza della propria vita, felicità e prosperità, si deve allora, per coerenza, accordare uguale valore oggettivo alle vite di tutti gli altri individui, dato che dal punto di vista oggettivo ogni altra persona è un “io” tanto quanto lo sono io. L’unica alternativa consiste nell’abbandonare ogni valore quando si passa al punto di vista oggettivo, cosa che ritengo impossibile. Non possiamo considerare le nostre vite come prive di valore oggettivo, così che gli altri non abbiano che motivi soggettivi per preoccuparsi che restiamo in vita o moriamo. Questo punto è stato tradotto nell’affermazione che la morale include motivi di tipo “agente-neutrale”, come quello per cui ognuno deve alleviare la sofferenza di un individuo A – e non soltanto motivi di tipo “agente-relativo”, come la ragione particolare per cui A deve alleviare la sofferenza di A o occuparsi dei suoi figli. 

Comunque, pur fornendo una ricca sorgente di motivi morali, il punto di vista oggettivo non è in grado di sostituire del tutto quello soggettivo, ma va integrato ad esso. Per quanto riconosciamo l’uguale valore di tutte le persone, la nostra vita è sempre la vita di un individuo particolare, con i suoi scopi, progetti, bisogni e affetti personali. Mi sembra che il problema centrale della teoria morale riguardi la domanda se subordinare questo punto di vista alle richieste dell’imparzialità morale, o piuttosto come e in che misura farlo. La tradizione utilitaristica ha difeso la richiesta di una subordinazione alquanto radicale dei motivi di tipo agente-relativo a quelli di tipo agente-neutrale – pur ammettendo giustificazioni di tipo agente-neutrale per consentire alla gente di perseguire scopi individualistici, come ha fatto con le responsabilità particolari fra i membri di una famiglia, che in termini utilitaristici possono essere giustificate in base al loro contributo al benessere generale. Mi sentivo più attratto dalla tradizione kantiana che attribuisce all’imparzialità un ruolo regolativo sui nostri motivi, mentre lascia al suo posto, all’interno del contesto di un sistema armonizzante degli standard universali, l’autorità razionale indipendente del punto di vista soggettivo sulle nostre vite. Questo è l’intento dell’imperativo categorico, e più precisamente della concezione kantiana del regno dei fini.

Nella teoria politica, queste questioni si estendono alla valutazione delle istituzioni legali, economiche e sociali. Quali sono le basi su cui convivere con i nostri concittadini che tengano conto sia dell’uguale valore di ciascuno di noi da un punto di vista oggettivo, sia degli interessi particolari che ognuno di noi ha relativamente alla propria vita e ai propri affetti? Credo che il rapporto del potere collettivo pubblico con la libertà individuale e i vari tipi di eguaglianza debba essere valutato in questi termini, che a mio parere consentono di salvaguardare una forma di liberalismo egualitario in cui vi sia una divisione morale del lavoro fra lo stato e l’individuo. In altre parole, le istituzioni pubbliche dovrebbero avere un ruolo maggiore di quello della morale personale nel riconoscere l’uguale importanza di ciascun individuo, il che lascerebbe le persone sostanzialmente libere di seguire la propria strada nella vita a patto di non nuocere agli altri.

Il terzo argomento che mi ha sempre interessato è la questione della vita e della morte: l’assurdità o il senso della vita, il giusto atteggiamento verso la morte, il rapporto tra la vita umana e il cosmo. Sono questioni che trovano uno spazio naturale nella filosofia, ma sulle quali è molto difficile riflettere con la chiarezza tanto cara alla tradizione analitica. Eppure negli ultimi anni queste questioni hanno smesso di essere considerate come sfera esclusiva della tradizione continentale e di tanto in tanto ho scritto su di esse. Non ho mai abbandonato la convinzione che la morte sia la fine della nostra esistenza e che sia una cosa orribile, nonostante nessuno di noi ne sia esente. In questi ultimi tempi ho sviluppato interesse per il rapporto fra scienza e religione e per le espressioni laiche del temperamento religioso. Resta incerto se sia legittimo cercare una causa soddisfacente del cosmo e del posto che in esso occupiamo, così da sentirci a casa nell’universo. Come le altre questioni della filosofia, possiamo presumere che anche questa continuerà ad occuparci per un bel po’ di tempo. Credo che il progresso nella filosofia non consista nel fornire risposte definitive, ma nell’approfondire la nostra comprensione dei problemi che sorgono inevitabilmente mentre tentiamo di trovare il nostro posto nel mondo non appena cominciamo a subire il tormento della penetrante autocoscienza che ci rende umani.

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