Acceptance Speech – Bern, 20.11.2009 (Italian)

Italy

Paolo Rossi Monti

2009 Balzan Prize for the History of Science

For his major contributions to the study of the intellectual foundations of science from the Renaissance to the Enlightenment

Balzan Prize Awards Ceremony 2009
Berne, Federal Palace, 20 November 2009


Signora Presidente del Consiglio nazionale,
Signora Consigliere Federale,
Membri dei Consigli e del Comitato Generale Premi, Signore e Signori,

il Premio Balzan è il più alto e prestigioso riconoscimento che possa venir conseguito da uno studioso di discipline umanistiche. Questo non rende più facile, ma più difficile, trovare parole che riescano a dare espressione alla profonda gratitudine che ho provato e provo per tutti gli studiosi che hanno deciso di assegnarmelo e per tutti coloro che hanno variamente contribuito – sempre con grande competenza e gentilezza – a rendere operante tale assegnazione.

Siamo in grado di accettare quantità davvero notevoli di gratificazioni senza provare il benché minimo senso di sazietà. In questo, non credo di fare eccezione. Ma, per mia fortuna, madre natura mi ha dotato di una discreta dose di senso dell’umorismo. Mi è sempre piaciuta la citazione da Esopo alla quale si è richiamato più volte Francis Bacon: “Quanta polvere sollevo! diceva la mosca collocata sull’asse della ruota di un carro”. Mi è anche capitato di polemizzare con i comportamenti di colleghi (particolarmente numerosi tra i filosofi) i quali fermamente credono che la loro attività intellettuale si configuri come “epocale”, qualcosa che ha a che fare con conquiste perenni, che è destinata ad avere effetti decisivi. Sono del tutto esente da queste forme di entusiasmo e il clima intellettuale che ha accompagnato il mio lavoro lungo molti decenni (ho pubblicato il mio primo libro nel 1952) ha molto a che fare con il moltiplicarsi dei dubbi e ha poco a che fare con la soddisfazione. Penso che questo premio sia anche un riconoscimento della notevole crescita e dell’evoluzione che la storia della scienza ha assunto nel corso del Novecento.


All’inizio del secolo scorso i nomi di due italiani, il matematico Federigo Enriques e il filosofo Giovanni Vailati, erano noti a tutti coloro che, in Europa e in America, si occupavano di storia della scienza. Ma durante tutta la prima metà del Novecento la storia della scienza – in particolare dopo la diffusione in Italia delle filosofie di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile (che si richiamavano ad Hegel e alla tradizione dell’idealismo) – ha avuto nel mio paese una vita stentata e difficile. Nel dopoguerra la situazione si è andata modificando. Oggi sono presenti molti studiosi che hanno scritto saggi e libri importanti e ben noti nel resto del mondo. Alla storia delle scienze si dedicano molti giovani ed esistono istituzioni, come l’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, diretto da Paolo Galluzzi, che sono al centro di molte e importanti iniziative internazionali.

In un discorso di ringraziamento per il premio che mi viene oggi conferito non posso non ricordare gli studiosi italiani verso i quali ho un profondo debito intellettuale: Eugenio Garin, storico della filosofia e grande studioso del Rinascimento con il quale mi sono laureato nel 1946 e del quale sono stato per molti anni collega alla Facoltà di Lettere di Firenze; Antonio Banfi, del quale sono stato assistente a Milano fra il 1948 e il 1956, allievo di Husserl e autore di una splendida biografia galileiana pubblicata nel 1930; infine Ludovico Geymonat e Giulio Preti, frequentando i quali ho finito per capire che anche i disaccordi più radicali possono avere una funzione importante nella formazione di uno studioso. Poi ci sono i maestri e i colleghi di altri paesi – molti dei quali ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare – dai quali ho imparato cose essenziali che soprattutto riguardano il modo di lavorare, di percepire e di affrontare i problemi. Che senso può avere trasformare una lunga esperienza di vita e di quotidiano lavoro in un arido elenco di nomi? Ma ognuno di questi nomi rappresenta per la mia vita intellettuale qualcosa di insostituibile e di decisivo. Accogliendo il premio che mi avete attribuito esprimo la mia gratitudine per il grande lavoro che hanno svolto Mary Hesse, Mirko Grmek, Alexandre Koyré, Thomas Kuhn, Arthur O. Lovejoy, Walter Pagel, Jacques Roger, Frances A. Yates nonché per il lavoro che continuano a svolgere Jean Starobinski e Brian Vickers.


Che cosa ho imparato da studiosi così diversi? Appena provo a rispondere, mi accorgo che le “cose” che ho imparato sono importanti, ma molto meno importanti di altre che riguardano – per esempio – i modi di porre domande e di interrogare i testi, i criteri per giudicare cosa è importante e cosa è meno importante, i modi di concepire la ricerca, l’utilizzazione delle fonti, soprattutto la maniera in cui si pensano i confini della propria disciplina. Tutte faccende che hanno a che fare più con uno “stile” di lavoro che con determinati e specifici contenuti. E inoltre qualcosa di ancora più indeterminato e sfuggente (ma anche di più decisivo) che tocca il cosiddetto mondo dei valori: i modi di concepire il lavoro della ricerca e i rapporti fra quel lavoro e la nostra vita di ogni giorno.

Dato che sto esprimendo i miei sentimenti di profonda gratitudine in una occasione non priva di solennità, spero mi verrà concesso di ringraziare qui anche mia moglie Andreina Bizzarri che ha avuto la pazienza di starmi accanto per più di sessanta anni, che mi ha molto aiutato a credere in me stesso e mi ha anche insegnato (e per mia fortuna continua a insegnarmi) a non crederci troppo.

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