Discorso di ringraziamento – Roma, 16.11.1990

Svizzera

Pierre Lalive d’Epinay

Premio Balzan 1990 per il diritto internazionale privato

Per il suo contributo fondamentale e originale alla teoria del diritto internazionale privato e per l’impulso dato con il suo insegnamento, il suo impegno e i suoi lavori, alla sua applicazione e alla ricerca di soluzioni ai problemi delle società contemporanee in trasformazione.

Signor Presidente del Senato,
Signor Presidente e Signori membri della Fondazione,
Eccellenze,
Signore e Signori,

Mai più come oggi, mi sarà facile conciliare l’espressione dei miei sentimenti personali con il rispetto dell’obiettività scientifica. Ringraziando qui la Fondazione Balzan del grande onore che mi conferisce e, attraverso me, che conferisce alla Svizzera, il mio paese, all’Università di Ginevra e alla scienza del diritto internazionale privato, non faccio altro che esprimere un vecchio debito di riconoscenza verso l’Italia.
Questo debito non è soltanto quello di ogni Europeo verso un paese di grande cultura, un paese di cui ammiro soprattutto la lingua e la letteratura, scoperte all’epoca della scuola con i “Promessi Sposi” o la “Locandiera”. Ciò che voglio esprimere qui, è la riconoscenza in primo luogo di ogni giurista formato attraverso il diritto romano e, in secondo luogo, soprattutto quella di un internazionalista.
Se quelli che sono chiamati, peraltro impropriamente, i “conflitti di leggi e giurisdizioni sono esistiti, sotto una forma o l’altra, sin dai tempi più antichi, la scienza del diritto internazionale privato è nata nel Medio Evo nelle città del Nord Italia, con la scuola di Bologna, della quale basterà qui citare il famoso Bartolo di Sassoferrato (nel XIV secolo) – allievo, come Dante e Petrarca, di quel grande giurista che fu Cino da Pistoia.
Di questa prima Scuola, vorrei ricordare, oltre la sua assenza di dogmatismo, l’idea molto attuale d’applicare allo stesso modo gli “statuti municipali”, cioè, per parlare in termini moderni, la legge straniera e la legge locale, la legge del foro.
Lì siamo agli antipodi di una tendenza moderna, che ho combattuta nei miei scritti, caratterizzata dalla pseudo-”rivoluzione” americana o, in Europa, da una certa teoria delle leggi dette di “applicazione immediata”, due correnti di dottrina aventi in comune il fatto di favorire il ripiegarsi su se stesso e l’esclusione delle leggi e delle istituzioni straniere nelle relazioni internazionali tra persone private.

Tengo anche a rendere omaggio alla scienza italiana moderna, alla quale ogni internazionalista deve una parte della sua cultura giuridica.
Nel XIX secolo, questa scienza è contraddistinta dalla grande figura di Pasquale Mancini, professore a Roma e a Torino, uomo politico, Ministro di Grazia e Giustizia e poi degli Affari esteri, nonché – non potrei dimenticarlo – primo Presidente e uno dei fondatori (con, particolarmente, gli Svizzeri Moynier e Bluntschli) di quell’istituto di Diritto Internazionale che oggi ho l’onore di presiedere.
Se anche le tesi di Mancini hanno certamente subito gli effetti del tempo, desidero ricordarne comunque alcune idee feconde: la sua prospettiva universalista, il ruolo riconosciuto alla libertà individuale nel campo dei contratti, e l’opportunità della codificazione internazionale (per esempio delle regole della vendita).
Quanto alla scienza italiana nel XX secolo, essa ha avuto il grande merito di sviluppare delle sapienti analisi, sulla natura formale e sulla struttura delle regole del diritto internazionale privato nel contesto generale dei rapporti tra il diritto interno e il diritto internazionale pubblico.
La tradizione svizzera del diritto internazionale privato è forse più pragmatica o empirica rispetto alle tendenze anglosassoni che ho scoperto nel corso dei miei studi all’Università di Cambridge. Si è soprattutto interessata al contenuto sociale e etico delle norme e delle decisioni. Ciò non toglie che, in Svizzera come altrove, la scienza del diritto internazionale privato deve molto agli importanti scritti degli internazionalisti italiani (come Ago, Morelli o Quadri – ne ometto tanti, fra i migliori..).
Qualcuno sarà forse stupito che usi qui il termine di “scienza”. Il diritto non è forse un’arte – “Ars boni et aequi”?
Diciamo che il diritto internazionale privato è allo stesso tempo arte e scienza, una scienza applicata, come la medicina, e votata come quest’ultima a migliorare la sorte degli uomini, qui nella “società internazionale” e più precisamente nelle “relazioni tra zone di confine”, siano esse personali, familiari, economiche, culturali o altre – e sia che si tratti per esempio dell’adozione internazionale di bambini, di ambiente naturale e di inquinamento, di statuto degli stranieri (rifugiati o no), di società, di protezione del patrimonio culturale o di commercio dell’arte, ecc.
Diritto della diversità dei diritti, questa disciplina trae la sua origine dal contrasto (o l’anacronismo) tra la divisione politico-giuridica del mondo in alcuni dei 170 differenti sistemi giuridici e, d’altra parte, le relazioni multiple che si allacciano tra un paese e un altro, in un mondo sempre più internazionalizzato e ristretto per la facilità delle comunicazioni.

Voltaire si stupiva che, per andare da Ginevra a Parigi, il viaggiatore dovesse cambiare “usanze” più frequentemente di quanto dovesse cambiare i cavalli alla diligenza! Cosa dire allora della eterogeneità delle legislazioni nazionali nell’epoca dei viaggi aerei, delle telecomunicazioni, della trasmissione elettronica dei dati, la quale non conosce nè frontiere nè fusi orari?
Di fronte a questa sorprendente contraddizione, occorre ricercare l’articolazione o il coordinamento dei sistemi giuridici. La finalità essenziale del diritto internazionale privato è dunque quella di contribuire all’armonia delle relazioni internazionali, proteggendo le persone dai gravi inconvenienti causati dal frazionamento dei rapporti giuridici dovuto alla divisione della terra in Stati sovrani.
Un simile obiettivo è sufficiente a spiegare come una tale scienza sia reputata di assai difficile accesso, per la
sua natura, i suoi metodi e l’ampiezza del suo campo d’investigazione. Tanto che si potrebbe essere tentati, parodiando Verlaine, di scrivere al riguardo una nuova “Ballata della cattiva reputazione”! Questa reputazione non risale solo a ieri. Già nel XV secolo, il francese Guy Coquille, riferendosi agli scritti degli studiosi italiani, parla di un’infinità di regole, distinzioni e decisioni che sono veri alambicchi per la mente, senza soluzioni certe.
In una disciplina così complessa per forza di cose, immagine stessa del mondo internazionale che tenta di organizzare, uno dei doveri degli internazionalisti è di evitare, fintanto che si può, la complicazione e l’oscurità delle regole e dei metodi. Vauvenargues diceva che “la chiarezza è la buona fede dei filosofi”. Lo stesso vale per i giurisconsulti e ciò tanto più che la loro influenza e il loro ruolo creativo sono nel diritto internazionale privato più importanti che in qualunque altra branca del diritto. Hanno la responsabilità di orientare legislatori e giudici, di stimolare le riforme rese necessarie dall’evoluzione – sociale, morale, tecnica – della nostra “società internazionale” in formazione. Questa società non è, se non in maniera secondaria, la “società degli Stati”. E conviene a questo proposito dissipare una confusione molto generalizzata. In uno scritto recente, leggevo che il diritto internazionale privato “dà la priorità alla realtà statale”, per vocazione e necessità tecnica, poichè regola le relazioni tra le norme statali virtualmente applicabili, in concorrenza, alle stesse situazioni in contatto con più paesi. Esaminando la vita internazionale degli uomini “attraverso lo schermo degli Stati”, il diritto internazionale privato sarebbe così “ridotto” a lavorare su delle norme e dei sistemi, piuttosto che sull’impasto umano. Questa presentazione comporta a mio giudizio un doppio errore di prospettiva: da una parte, essa confonde i fini (che sono la tutela e la sicurezza delle persone) con i mezzi (le regole degli Stati). D’altra parte, il suo limitato positivismo disconosce l’esistenza di altre fonti di diritto al di fuori dello Stato- Nazione – per esempio un diritto spontaneo, “transnazionale” che è applicato e rivelato a volte dall’arbitrato internazionale – di cui lo straordinario successo è senza dubbio il fenomeno più significativo del diritto contemporaneo, e di cui l’importanza è lungi dal limitarsi al ruolo pacificatore di questa istituzione. Ciò che è al centro delle preoccupazioni del diritto internazionale privato, in sintesi, non sono gli Stati, ma le persone e le loro associazioni; è la persona, scopo della società, come avrebbe detto Denis de Rougemont, il quale preferirebbe, a ragione, seguire Althusius piuttosto che Jean Bodin.

Concludiamo: in questa società politicamente e giuridicamente frazionata, ma al tempo stesso ricca di pluralità di culture, la missione del diritto internazionale privato è di adattare, con immaginazione, i suoi metodi e le sue norme per far fronte – insieme, beninteso, ad altre discipline – al ritmo accresciuto dell’evoluzione, e per esempio alle sfide del sottosviluppo o delle migrazioni di lavoratori, o alle minacce contro l’ambiente naturale. Così facendo, dovrà preservare i valori essenziali che sono suoi propri, valori di armonia nella diversità, di tolleranza, di rispetto dell’altro e dello straniero. Ai tempi di Aristotele, Diogene il Cinico aveva inventato il termine di “cittadino del mondo” (di “cosmopolita”). Dopo gli Stoici, Montaigne considerava tutti gli uomini suoi “compatrioti”. Il diritto internazionale privato s’inserisce, lo si vede, in una tradizione filosofica e umanista secolare. Lo spirito di solidarietà e di fraternità internazionali di cui è imbevuto non è in perfetta sintonia con l’ammirabile ideale della Fondazione Balzan?

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