Un progetto globale per la musica: intervista a Reinhard Strohm – 24.05.2017

Regno Unito / Germania

Reinhard Strohm

Premio Balzan 2012 per la musicologia

Per le sue vaste ricerche sulla storia della musica europea nel contesto dello sviluppo sociale e culturale dal tardo Medioevo ai nostri giorni, e per le dettagliate descrizioni della musica vocale, specialmente della antica musica sacra di area fiamminga, e delle opere di Vivaldi, Händel e Wagner.

Professor Strohm, il quattordicesimo ed ultimo workshop dal titolo “Global Bach and Media Geography” svoltosi alla Humboldt-Universität di Berlino, conclude il suo progetto di ricerca finanziato dalla Fondazione Balzan e al quale sta lavorando da quasi cinque anni, “Towards a Global History of Music”. Ci potrebbe illustrare i contenuti e gli obbiettivi del suo ambizioso progetto?
Il titolo del mio progetto di ricerca è appunto “Towards a Global History of Music” e include il concetto, nemmeno poi così nuovo, di storia globale. Nelle scienze musicali, tuttavia, il concetto non è molto diffuso. Soprattutto gli storici, dispongono di numerosi istituti e di rami specializzati in “storia globale”. In campo musicale invece, l’idea di una storia globale della musica ha preso piede solo a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, con una sola eccezione nel periodo dell’Illuminismo, quando Johann Gottfried Herder, ad esempio, si occupò della musica degli altri continenti e di altre culture.
Poi abbiamo a che fare con la tradizione ormai molto consolidata dell’etnologia musicologica. Fino a venti, trent’anni fa, la storia musicale e l’etnologia musicologica si erano sviluppate in modo separato. La storia musicale era concentrata sull’Europa e sul mondo occidentale, mentre l’etnologia musicologica era focalizzata sulle restanti aree del mondo. Uno status quo che però non poteva e non doveva perdurare. Noi abbiamo così intrapreso il tentativo di unire assieme le due discipline e l’obbiettivo principale del progetto di ricerca è stato proprio quello di studiare in modo più approfondito la storia della musica al di fuori dell’emisfero occidentale. Non si è trattato di analizzare semplicemente il concetto di musica globale, bensì di concentrarsi sulla storia della musica negli altri continenti. E la domanda che ci siamo posti è stata quella sulla possibilità di svolgere una ricerca sulla musica in Africa in assenza di fonti scritte complete. Abbiamo provato a farlo collaborando con numerosi ricercatori ed esperti provenienti da molti paesi e da culture diverse.
La storicità della musica cinese ad esempio è fuori discussione ed è anche più antica di quella della musica europea. Nella storiografia musicale ufficiale si è imposta la teoria, che la musica europea e le sue nuove tradizioni rappresentano la conseguenza logica di un lungo processo storico. Partendo cioè dalle cosiddette culture primitive, passando poi a quelle delle civiltà antiche più progredite, si arriverebbe direttamente all’Europa moderna, come se il nostro continente rappresentasse la conseguenza logica di un processo storico della musica. Questo modo di considerare la storia non è più attuale e nemmeno accettabile.
Il termine di “towards” (verso, in direzione di), significa che non possiamo più illuderci di poter scrivere l’intera storia mondiale della musica. Possiamo tutt’al più muoverci e orientarci in questa direzione. L’intento resta comunque difficile. Innanzitutto per via della varietà del tema. E in secondo luogo perché non possiamo commettere nuovamente l’errore di procedere in modo eurocentrico, dettando agli altri il modo in cui devono scrivere ed interpretare la storia della loro musica.
Nel corso del nostro progetto di ricerca ci sono state molte discussioni attorno alla legittimità stessa di scrivere una storia globale della musica, dal momento che il senso di una simile operazione, non veniva necessariamente condiviso da tutti i paesi. Nonostante questi dubbi, ad imporsi alla fine è stata la convinzione sulla necessità di avviare una ricerca sulle culture musicali del mondo. Si tratta solo di un inizio e di una ricerca dall’esito completamente aperto.


A quasi cinque anni dall’avvio dei lavori, il progetto di ricerca è ora giunto al termine. Prevedete di pubblicare i contenuti e i risultati raggiunti? E il vostro lavoro avrà un seguito?
La struttura che abbiamo scelto per il nostro progetto prevedeva il coinvolgimento di giovani ricercatori incaricandoli dell’organizzazione e dello svolgimento di gran parte dei quattordici workshop. Da questi seminari e dalle ricerche commissionate ai cosiddetti “research visitors”, è venuto stato tratto molto materiale. Nel corso dell’intero progetto sono state tenute 160 relazioni e 23 giovani ricercatori hanno ottenuto borse di studio per svolgere delle ricerche mirate. Inoltre abbiamo anche registrato i vari dibattiti svoltisi al termine delle relazioni.
Attualmente stiamo esaminando e selezionando il materiale raccolto, anche se non tutto potrà essere ovviamente pubblicato, vuoi perché alcuni relatori pubblicheranno altrove i loro lavori, vuoi perché alcune relazioni non sono state accettate dalla nostra commissione. Alla fine sono state selezionate sessanta relazioni e ricerche più piccole e i lavori commissionati direttamente ai giovani ricercatori. Questi ultimi non verranno però pubblicati, ma ceduti alla Fondazione Balzan, che – previa autorizzazione degli autori – li potrà mettere a disposizione per scopi scientifici a chi ne farà domanda. Il restante materiale verrà invece pubblicato sia in versione cartacea, sia in versione digitale come e-book. Un primo volume si trova già in fase di stampa presso la Taylor & Francis di Londra, una casa editrice che ha alle spalle una lunga esperienza nella pubblicazione di testi scientifici anche nel campo della musicologia. Questo primo volume contiene i primi due anni di lavoro del nostro progetto di ricerca che si sono concentrati principalmente sulla storia musicale nell’era moderna – dal diciottesimo al ventesimo secolo – in Europa, nell’Asia orientale e in quella meridionale.
Nelle cosiddette “Proceedings” della British Academy, vorrei poi pubblicare due altri volumi focalizzati su singoli aspetti della nostra ricerca. In collaborazione con l’Oxford Research Archive infine, vorremmo mettere online le relazioni, ricerche ed esposizioni dei workshop che non saranno pubblicate in versione cartacea e che normalmente non entrerebbero a far parte dei circuiti scientifici.


Quali esperienze l’hanno impressionata maggiormente nel corso del progetto di ricerca?
Ho imparato davvero tante cose di cui prima sapevo poco o nulla. Una che mi ha particolarmente impressionato è stata quella di apprendere l’incredibile varietà delle situazioni storico-musicali nei rispettivi continenti. Alcuni dei nostri workshop si sono occupati di ricerche comparative. Una di queste ha messo a confronto i lavori dei missionari cattolici dal sedicesimo al diciottesimo secolo in Sudamerica e nell’Asia orientale. Erano in massima parte Gesuiti e Francescani provenienti dall’Europa. I missionari impiegati in Cina, per muoversi e lavorare all’interno della corte, dovevano prima ottenere l’autorizzazione da parte dell’Imperatore. In Sudamerica invece si insediavano direttamente nella foresta, senza che dover chiedere il permesso a nessuno. In Africa infine le situazioni e realtà erano così molteplici e differenti che parlare di una storia musicale africana omogenea è quasi impossibile. A differenza dei paesi occidentali e di quelli sudamericani e dell’Asia orientale, in Africa ci sono troppo pochi ricercatori e network scientifici con i quali poter collaborare.
Una delle priorità, per un eventuale quanto auspicabile proseguimento del nostro progetto di ricerca, consiste nella ricerca di partner adatti per intensificare la nostra collaborazione con istituzioni in Africa e nel mondo arabo. Soprattutto nelle regioni arabe esiste in realtà già oggi una fitta rete di esperti e ricercatori. In parte si tratta di studiosi tedeschi o americani che lavorano sul posto, ma in buona parte anche di ricercatori locali che però hanno spesso difficoltà ad allacciare contatti con istituzioni esterne.


Fino a che punto però è possibile parlare di un concetto globale della musica, se già il significato di questa parola è soggetto ad interpretazioni molto differenti nelle singole aree geografiche?
Sì, è vero. Ogni singola area culturale possiede una propria definizione del concetto di musica. Nel mondo arabo-islamico il concetto di musica si limita alla teoria della musica e alla musica strumentale. Tutto quello che noi definiamo come musica include anche la pratica musicale, il suonare uno strumento come anche il canto e in senso più ampio anche la poesia, la danza, i riti religiosi. Attività che nei Paesi arabi restano all’ombra della dottrina islamica. Il concetto di musica viene quindi svantaggiato dal dogma religioso. D’altro canto i musicisti arabi concepiscono il raggio del loro lavoro in modo più vasto e completo rispetto ai loro colleghi occidentali. Il significato della parola musica è molto diversificato e allo stesso tempo è subordinato all’ordinamento etico-religioso.
Nelle culture indigene americane abbiamo a che fare con definizioni molto differenti della pratica musicale. Qui sono i riti tradizionali ad incidere fortemente sul concetto di musica. La musica assoluta e genuina come quella sinfonica da concerto esiste ovviamente anche in altre culture ed è sbagliato sostenere che sia esistita solo nei Paesi europei. Nell’Asia orientale ad esempio esistevano forme di musica da concerto già migliaia di anni fa. Non sono stati in pochi a sostenere che il concerto, come pura forma di esecuzione musicale, sia nato nel diciottesimo secolo in Europa. Perfino il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas era di questo avviso. Eventi musicali da concerto esistevano però già nell’antica Grecia.
Nella pratica concertistica occidentale infine assistiamo già da diverso tempo alla tendenza di amalgamare insieme tutte le discipline riconducibili in qualche modo al concetto di musica. Esiste così un trend ritualistico, quello della musica “crossover”, l’unione della musica al teatro danza moderno e così via. Le pratiche musicali dell’Occidente si riavvicinano a questo modo a quelle delle culture di altri Paesi. È un processo che definiamo come l’ibridazione della musica.


Quali influenze sono state più incisive? Quelle esercitate dalle tradizioni musicali dell’Occidente sulle culture di altri continenti, oppure viceversa?
Esprimere un giudizio definitivo in materia non è possibile, dal momento che i processi di condizionamento variano molto a seconda delle rispettive epoche. Concentriamo dunque la questione sull’epoca moderna. L’era del colonialismo, in un arco di tempo quindi di circa 250 anni, ha provocato una forte espansione delle forme e tradizioni culturali europee nel mondo. In seguito alle guerre d’indipendenza, le ex colonie si sono inizialmente emancipate dal predominio culturale delle potenze europee. In molti casi tuttavia, gli intrecci e le contaminazioni fra le diverse culture sono sopravvissuti. Oggi ad esempio non è possibile sostenere che la tutela dell’opera di Johann Sebastian Bach in Giappone sia una sorta di dono lasciato in eredità al Paese dall’Europa. Bach è divenuto nel frattempo parte integrante della cultura giapponese. Il mio collega Nicholas Cook sostiene che nei Paesi dell’Asia orientale, le eredità musicali dell’Occidente vengono coltivate e sviluppate alacremente.
Tobias Klein, della Humboldt-Universität di Berlino, ha utilizzato la nostra borsa di studio per svolgere una ricerca dal titolo “Bach in Africa”, nella quale viene dimostrato che in Ghana la cura e l’interpretazione dei corali e delle musiche sacre del compositore tedesco ha preso una direzione completamente autonoma e indipendente. Non è dunque vero che il mondo intero aspetti sempre quello che viene fatto in Europa con la musica di Bach. Molti Paesi hanno invece sviluppato nel frattempo le proprie interpretazioni. Il trasferimento, la diffusione di determinate tradizioni culturali c’è ovviamente stato. Ma nessuno può mai presagire quello che poi avviene con ciò che è stato diffuso. Anche in Sud America Johann Sebastian Bach fa ormai parte della propria eredità storica e culturale.


Il suo progetto di ricerca si è concentrato su di un determinato arco temporale?
Inizialmente avevamo pensato di iniziarlo intorno al 300 d.C. Nel corso di un workshop tenutosi a Oxford l’anno scorso, è stata presentata una relazione sull’età ellenistica che ha illustrato gli straordinari sviluppi globali in quell’epoca. Altri processi di globalizzazione musicale sono stati osservati anche nel corso del primo millennio e successivamente negli imperi mongoli del Medioevo. Un’altra relazione, tenuta nel corso di un workshop a Gerusalemme, ha paragonato gli sviluppi musicali in diversi sistemi imperiali. Messi a confronto sono stati l’Impero Ottomano, quello Asburgico e l’Unione Sovietica, imperi che hanno dominato in parte la stessa area geografica. La ricerca è giunta all’interessante conclusione che gli imperi dominanti sono riusciti ad imporre solo in parte la loro influenza culturale nelle zone controllate. In altre parole: non è possibile definire tutto come ottomano ciò che all’epoca si svolgeva in Armenia o in Palestina. Per questi Paesi è molto rilevante scoprire l’influenza della propria cultura e identità durante gli anni dell’Impero. E se per scoprirlo devono ancora recarsi al British Museum, oppure se sono in grado di farlo basandosi su proprie ricerche sul posto.

Fino a che punto possiamo parlare anche di una globalizzazione degli strumenti musicali, dello “hardware” per così dire?
Gli strumenti musicali fanno parte delle testimonianze materiali del passato e rappresentano una delle più antiche materie di studio della musicologia. Soprattutto a Berlino a partire dal diciannovesimo secolo si è iniziato a collezionare e a catalogare in maniera intensiva gli strumenti musicali da diverse parti del mondo. E questo tema è davvero anche molto importante e il nostro progetto di ricerca non lo ha potuto approfondire in modo esauriente. Una storia della musica, senza una storia degli strumenti musicali, sarebbe incompleta. In quale rapporto stanno gli strumenti musicali delle varie culture del mondo? Si tratta esattamente dei medesimi strumenti? Sono stati trasferiti da un posto all’altro, da una regione all’altra? Oppure abbiamo a che fare con gli stessi strumenti musicali sviluppatisi indipendentemente gli uni dagli altri in diverse aree del pianeta, senza essere mai entrati in contatto fra loro? Gerhard Kubik, uno dei maggiori studiosi di musica africana, ha sostenuto la tesi secondo la quale uno strumento musicale, presente sia in Angola che nei Caraibi, sia stato trasportato per il mondo attraverso il commercio di schiavi. Un giovane gruppo di ricercatori si è occupato di questa tesi senza trovare però delle conferme a suo favore. Secondo loro è anche possibile che gli strumenti siano stati sviluppati indipendentemente fra loro nei due rispettivi Paesi.

Il tema del suo progetto di ricerca è molto complesso, quasi faraonico. Come ha proceduto nel suo lavoro di realizzazione? E strada facendo non è stato colpito da dubbi sulla sua realizzabilità?
La fattibilità pratica di un progetto di ricerca del genere è sempre anche una sorta di utopia, di scommessa. Anche nei temi più marginali e piccoli si deve presto constatare che si ha a che fare con un pozzo senza fondo, nel quale non si giunge mai ad una conclusione. Personalmente traggo sempre molta ispirazione e molti stimoli da sfide di questo genere. Il Rinascimento, l’Umanesimo in Europa, era stimolato da questa curiosità. Dalla voglia di sapere, dal bisogno di allargare il proprio orizzonte, dalla volontà di imparare anche dagli altri. Se davvero si vuole imparare qualcosa, allora bisogna iniziare dal piccolo. Bisogna concentrarsi sulle cose minimali. Ed è per questo motivo che al momento i ricercatori favoriscono le ricerche sul posto, le cosiddette “area studies”. La cosa essenziale consiste nel portare assieme ricercatori che sono esperti di singoli dettagli. Solo la somma di questi dettagli, il dialogo e la comunicazione fra i singoli ricercatori, sono in grado poi di dar vita a qualcosa di più grande.

Come giudica lo stato della musicologia nel contesto della ricerca scientifico-universitaria di oggi?
La posizione della musicologia è molto differente all’interno della stessa Europa. In Italia esistono cinque università che dispongono di un istituto di musicologia, ovvero quelle di Bologna, Cremona, Torino, Palermo e Roma. Altri Paesi non sono ancora così avanti.
In Germania e nei Paesi anglofoni, le scienze musicali sono molto presenti e sviluppate. Cosa che non vale però per le scienze dello spettacolo, la cui situazione all’interno delle università tedesche e di quelle dei Paesi anglofoni, è a dir poco precaria.
Nel 1975, l’anno del mio trasferimento a Oxford, nel Regno Unito esistevano solo pochissimi istituti di musicologia, mentre in Germania ce n’era uno in quasi tutte le grandi università. Nel frattempo lo studio della musicologia è molto diffuso anche in Gran Bretagna. Lo stesso vale anche per gli Stati Uniti e per l’Australia. Ma si tratta sempre degli stessi Paesi. Ed è per questo motivo che al momento tento di raccogliere gli indirizzi di esperti e studiosi del settore in Africa, in Asia e nell’America Latina con cui poter collaborare in futuro.
Nel campo dell’etnologia esistono molti progetti di ricerca svolti ad esempio dai miei colleghi francesi nelle ex zone coloniali dell’Africa occidentale. Ed è spesso proprio in collaborazione con gli studiosi di etnologia che riusciamo a realizzare i nostri progetti di ricerca in musicologia.
Poi ci sono i Paesi dell’Europa orientale, nei quali – fatta eccezione per la Russia e per la Polonia – lo studio della musicologia è stato a lungo trascurato. In epoca sovietica era il regime a dettare i parametri scientifici anche per questa materia. Il nostro compito è quello di sostenere oggi i nostri colleghi in Europa dell’est e di avviare con loro discussioni e collaborazioni.


Walter Rauhe
Berlino

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