Sintesi panoramica – Roma, 21.11.2008 – Forum (inglese)

Australia/Regno Unito

Ian Frazer

Premio Balzan 2008 per la medicina preventiva, inclusa la vaccinazione

Per lo straordinario risultato scientifico e il duraturo contributo alla medicina preventiva, frutto del suo lavoro dedicato allo sviluppo di un vaccino per la prevenzione del tumore di origine virale del collo dell’utero, responsabile di 250.000 decessi annuali.



Il tumore del collo dell’utero può svilupparsi solo se la cervice uterina è stata previamente infettata dal papillomavirus: questa scoperta, fatta agli inizi degli anni Ottanta, è valsa al suo autore, il Prof. Harald zur Hausen, la recente attribuzione del Premio Nobel per la Medicina. Il tumore del collo dell’utero è una conseguenza relativamente rara e tardiva della trasmissione sessuale di un’infezione da parte di questo virus, che la maggior parte di noi contrae e supera senza neppure rendersene conto. Ciò nonostante, il tumore del collo dell’utero uccide nel mondo, e soprattutto nei paesi emergenti, più di 250.000 donne ogni anno, colpendole nell’età in cui sono ancora impegnate a crescere ed educare i propri figli. Lo screening eseguito o con test citologici intesi a rilevare la presenza di cellule cancerogene o pre-cancerogene, o con test virali per rilevare la presenza di infezioni virali persistenti, può ridurre l’impatto del tumore del collo dell’utero ma, purtroppo, proprio nei paesi con la maggiore incidenza di questa patologia, non è disponibile per tutti.

Ho iniziato a interessarmi all’infezione da papillomavirus all’inizio degli anni Ottanta, poco dopo le importantissime osservazioni del Prof. Zur Hausen e dei suoi colleghi. A quel tempo ero immunologo tirocinante con il Prof. Ian Mackay a Melbourne, in Australia, dove mi ero da poco trasferito dalla Scozia. Avevo osservato che gli uomini il cui sistema immunologico era stato compromesso da un’infezione del virus che oggi chiamiamo HIV/AIDS non riuscivano a guarire definitivamente dalla presenza di verruche genitali . Le verruche sono causate da un papillomavirus simile al virus responsabile del tumore del collo dell’utero. Questi virus sono piuttosto insoliti, in quanto possono infettare soltanto le cellule epiteliali e non si diffondono attraverso il sangue come la maggior parte dei virus. Inoltre, essi non uccidono le cellule che infettano, come fanno in genere gli altri virus ma, al contrario, ne prolungano la vita. Mi sono interessato al modo in cui il sistema immunitario, la nostra difesa contro le infezioni, si comportava nei confronti di questo tipo di infezione, in quanto la persistenza dell’infezione da papillomavirus faceva pensare a un’evidente capacità di sfuggire alle nostre difese immunitarie. Pur se i vaccini erano comunque un obiettivo sempre presente nei miei programmi, essendomene interessato fin da quando ho iniziato la mia pratica da immunologo, non mi sono dedicato in prima battuta allo sviluppo di un vaccino per prevenire l’infezione da papillomavirus. Intendevo piuttosto comprendere la vera essenza dei meccanismi immunitari che potevano portare all’eliminazione dell’infezione da papillomavirus. Il lavoro di ricerca sul vaccino contro il papillomavirus, che mi è valso l’assegnazione del premio Balzan, è stato condotto all’inizio degli anni Novanta a Brisbane, in grande misura in collaborazione con il mio scomparso collega e compagno di ricerca postdottorale, il Dottor Jian Zhou, ed è stato parte di un programma di ricerca di 25 anni – e tutt’ora in corso! – volto a comprendere l’aspetto immunologico delle infezioni da papillomavirus persistenti e quindi a sviluppare interventi immunitari per prevenire il tumore del collo dell’utero

Verso la fine del decennio del 1890, i papillomavirus (PV) sono stati tra i primi virus, o “agenti filtrabili”, a essere descritti. Negli anni Trenta, Peyton Rous mostrò che il papilloma di Shope (Cotton-tail Rabbit Papilloma Virus – CRPV) è causa del tumore epiteliale nei conigli. I papillomavirus umani erano, però, virus che non si prestavano al lavoro sperimentale in quanto non era possibile farli crescere in laboratorio o negli animali. Questo fatto precludeva la possibilità di avvalersi dei normali metodi di classificazione virale in base alle loro reazioni agli immunosieri di pazienti infetti. Si è potuto stabilire che i papillomavirus umani erano responsabili delle verruche epiteliali e genitali ma, con i limitati strumenti disponibili, poco si riusciva a sapere riguardo alle loro proprietà immunologiche. Poiché le verruche umane non si trasformavano “mai” in cancro, non c’erano grandi incentivi per uno studio intensivo di questi virus così complicati.

L’associazione dell’infezione da papillomavirus con il tumore epiteliale umano è stata suggerita per la prima volta dal lavoro di Zur Hausen e colleghi alla fine degli anni Settanta. La crescente disponibilità di tecniche molecolari per la clonazione e infine il sequenziamento dei geni virali, da me acquisite insieme alle mie conoscenze di immunologia virale al Walter and Eliza Hall Institute di Melbourne, mi hanno consentito di lavorare sui papillomavirus in modo prima impossibile, e mi hanno fornito gli strumenti per lavorare all’immunologia dell’infezione da papillomavirus. In seguito, metodi avanzati di rilevamento dei papillomavirus tramite l’ibridazione di DNA, hanno consentito all’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), e ad altri, la realizzazione di ampi studi epidemiologici grazie ai quali si è infine stabilito che quasi il 100% dei tumori del collo dell’utero e il 10-50% di altre forme di cancro anogenitale, della testa e del collo possono essere attribuiti a papillomavirus umani ad “alto rischio”. Ma nel 1985, quando ho iniziato a studiare l’immunologia del papillomavirus, tutto questo apparteneva ancora al futuro.

Il mio lavoro di Melbourne mi ha portato inizialmente a osservare che non era possibile eliminare definitivamente le verruche né nei pazienti infettati da HIV con un sistema immunitario compromesso, né nei pazienti con problemi immunologici causati dalla somministrazione degli allora sempre più disponibili soppressori immunologici utilizzati nei casi di patologie autoimmuni e quale protezione dei trapianti di rene. Le infezioni da papillomavirus guariscono più lentamente della maggior parte delle infezioni virali anche in soggetti immunocompetenti, ma i pazienti con HIV pareva non riuscissero affatto a liberarsi da queste infezioni. Il lavoro di Zur Hausen suggeriva che l’infezione persistente da HPV a livello della cervice uterina potesse causare il tumore del collo dell’utero così, insieme a una collega di Merlbourne, la Dottoressa Gabrielle Medley, mi sono messo a cercare infezioni persistenti nell’epitelio anogenitale dei pazienti con positività HIV. Abbiamo così scoperto che tali pazienti non solo erano affetti da infezioni persistenti da papillomavirus ma che alcuni di essi presentavano lesioni precancerose del canale anale. Questa situazione era particolarmente interessante in quanto suggeriva la possibilità che l’infezione da HPV potesse causare il cancro in aree diverse. Ero molto incuriosito dal fatto che l’associazione dell’immunosoppressione con il cancro anale da noi osservata, potesse essere un primo esempio umano di controllo immunologico del cancro, un’ipotesi avanzata per la prima volta da Sir MacFarlane Burnett negli anni Cinquanta nonostante allora non potesse contare su validi esempi né animali né umani.

L’idea che il sistema immunologico potesse fornire le difese contro il papillomavirus associato alle forme tumorali, mi ha portato a cercare di sviluppare una terapia immunitaria per il tumore del collo dell’utero, obiettivo che sto ancora perseguendo nel 2008! Quando nel 1985 mi sono trasferito da Melbourne a Brisbane per ricoprire il ruolo di direttore del servizio di immunologia clinica presso il Princess Alexandra Hospital, ho deciso che la ricerca che avrei lì condotto si sarebbe concentrata su questo aspetto. Con il Dottor Robert Tindle, che si unì alla ricerca, ho studiato le risposte immunologiche alle proteine del papillomavirus associate a infezione persistente e al cancro. Due proteine non strutturali, chiamate E6 e E7, che sostanzialmente alterano la crescita delle cellule epiteliali e paiono necessarie per la formazione del cancro, sono permanentemente espresse nei tumori associati al virus HPV. Le risposte immunologiche mediate dalla cellula a queste proteine, nonché a un’altra proteina virale, la E2, sono state pertanto associate alla regressione dell’infezione. Il meccanismo cellulare che induce la regressione delle verruche resta a tutt’oggi incerto, pur se si possono trovare indicazioni al riguardo nella capacità dell’applicazione topica di imiquimod – attivatore dei recettori Toll-Like 7 (TLR7) e TLR8, nonché promotore dell’infiammazione locale – di indurre tale regressione. I nostri primi studi sugli animali hanno dimostrato l’immunogenicità delle proteine non strutturali del papillomavirus. Tuttavia, per studiare le risposte immunitarie a queste proteine negli esseri umani infettati, avevamo bisogno di cellule umane che esprimessero gli antigeni come obiettivi per una prova di immunità a mediazione cellulare, e avevamo bisogno anche di modelli animali di infezione epiteliale persistente, senza infiammazione, per studiare il modo in cui la risposta immunitaria determinava l’esito dell’infezione.

Queste esigenze mi hanno spinto a chiedere, nel 1989, un periodo sabbatico per poter visitare il laboratori del Prof. Lionel Crawford e della Prof.ssa Margaret Stanley, entrambi riconosciuti esperti delle infezioni da HPV, presso il Dipartimento di patologia dell’Università di Cambridge. Desideravo imparare come clonare i geni virali di campioni clinici e esprimerli nei tessuti epiteliali e negli animali transgenici. Ho scoperto che quando la proteina E7 era sovraespressa nelle cellule, provocava differenziazione e morte cellulare precoci, fatto che ostacolava la produzione di cellule target per le prove immunologiche e modelli animali per studiare le infezioni. Durante il mio periodo sabbatico del 1993, il laboratorio di Paul Lambert a Madison mi ha ripetutamente messo a disposizione un topo transgenico E7 che è diventato uno strumento critico per lo studio che io, il Dott. Lambert e molti altri colleghi stavamo conducendo sui vaccini terapeutici per l’infezione da papillomavirus. La visita a Cambridge, però, mi ha permesso di conoscere il Dott. Jan Zhou, un medico e scienziato cinese che lavorava allora con Lionel Crawford sull’espressione dei geni del papillomavirus nelle cellule dei mammiferi utilizzando vaccinia virus ricombinante. Ho potuto constatare che se questo lavoro avesse avuto successo ci avrebbe permesso di creare i target per le prove immunitarie utilizzando cellule umane. Insieme abbiamo pensato che se i geni del papillomavirus sovraespressi singolarmente erano letali per le cellule, e il virus HPV16 naturale, ossia il virus maggiormente responsabile del tumore del collo dell’utero, non era disponibile come reagente di laboratorio, avremmo potuto preparare i target per le prove immunitarie costruendo un papillomavirus HPV16 artificiale e utilizzandolo per infettare le cellule e ottenere i target per le nostre prove.

Abbiamo pensato che questo si sarebbe potuto fare impacchettando il genoma virale nelle proteine della capside e in effetti, nel 1993, ci siamo infine riusciti. Nel 1989, tuttavia, le nostre rispettive visite a Cambridge stavano giungendo al termine e così ho convinto Jian che avremmo potuto lavorare insieme se soltanto lui e sua moglie Xiao Yi Sun fossero venuti a Brisbane, cosa che in effetti fecero alla fine del 1990. All’inizio del 1991, come parte della nostra strategia per la produzione di un HPV16 sintetico, abbiamo dimostrato che l’espressione delle due proteine virali della capside del virus HPV16 (L1 e L2) in cellule del rene di scimmia, attraverso un doppio vaccina virus ricombinante, dava luogo alla costituzione di particelle simili al virus (VLP- Virus-Like Particles), visibili al microscopio elettronico. Questa è stata una prima convincente dimostrazione del fatto che l’HPV16 poteva effettivamente formare una capside, in quanto questo virus non era stato visto con il microscopio elettronico nelle lesioni cliniche associate all’HPV16. Per ottenere la produzione della capside del virus, abbiamo espresso la principale proteina della capside dell’HPV16 (L1) dal secondo codone di inizio nel gene L1. Abbiamo identificato questo codone di inizio confrontando le sequenze del gene dei vari geni PV L1 allora sequenziati. Questo esercizio primitivo di genomica comparativa è stato realizzato con carta e penna perché l’unico computer del nostro laboratorio non era in grado di svolgere tale lavoro. Insieme ad altri ricercatori, tra cui Rose a Rochester e Kirnbauer nel laboratorio di Lowy e Schiller presso il NIH (National Institute of Health) abbiamo in seguito dimostrato che i geni PV L1 di vari tipi di HPV, quando sono espressi con sistemi di espressione eucariotica più efficienti, si riuniscono autonomamente in capsidi virali (VLP) senza L2, pur con un’efficienza in certa misura ridotta. Le L1 VLP non riescono a impacchettare il DNA virale e per la produzione dei virioni infettivi avevamo bisogno della L2, pur se in seguito Rode e Schiller hanno sviluppato tecniche migliori per la produzione di pseudovirus infettivi. Le particelle elaborate con la sola L1 presentavano tuttavia caratteristiche simili a quelle del virus naturale sia dal punto di vista fisico sia, cosa ancora più importante, dal punto di vista immunologico, e una volta stabilito questo è parso logico che le particelle simili al virus potessero diventare la base di un vaccino per prevenire questa infezione indesiderata, possibile causa di cancro.

Con alcuni colleghi della CSL, un’azienda biofarmaceutica australiana impegnata nello sviluppo dei vaccini, abbiamo discusso per un certo tempo della possibilità di produrre vaccini per il trattamento delle infezioni da papillomavirus, e quando abbiamo visto che eravamo in grado di produrre particelle simili al virus, che negli animali inducevano una risposta da parte degli anticorpi, abbiamo proposto loro di affiancarsi a noi in un progetto volto alla messa a punto di un vaccino per la prevenzione dell’infezione da papillomavirus. In quel momento stavamo presentando i risultati da noi ottenuti in diversi congressi internazionali, il più significativo dei quali è stato probabilmente il Workshop internazionale sul papillomavirus tenutosi a Seattle nel settembre 1991, e queste presentazioni hanno attirato l’interesse di diverse società impegnate nella produzione di vaccini, tra le quali Merck e GSK. Negli anni seguenti, l’interesse nei confronti di vaccini in grado di prevenire l’infezione da HPV è ulteriormente aumentato dopo la dimostrazione che due tipi di papillomavirus (HPV16 e HPV18) erano corresponsabili della maggior parte delle forme di cancro della cervice uterina. Studi realizzati da Campo e Jarret avevano dimostrato che le vacche, tramite infezione con papillomavirus bovino, risultavano protette contro altre esposizioni a virus e potevano essere protette contro l’esposizione al virus anche tramite immunizzazione previa per mezzo di virioni ottenuti a partire da verruche bovine. La protezione era associata a anticorpi che potevano legarsi ai virioni di PV1 bovino.

Risultati simili sono stati ottenuti, da Bennet Jense e colleghi, per il papillomavirus orale canino, che infetta la mucosa orale dei cani. Il modello di PV orale canino mostrava che le particelle simili al virus potevano indurre la protezione dall’esposizione al virus vivo, e che tale protezione poteva essere trasferita a un altro animale attraverso la frazione di immunoglobulina del siero immune. Questi risultati hanno fatto pensare che i vaccini per prevenire il PV umano, basati sulle particelle simili al virus, avrebbero potuto avere successo se avessero generato anticorpi neutralizzanti. Tuttavia, le infezioni da papillomavirus umano di maggiore interesse avevano luogo sulle superfici mucose e non c’erano vaccini virali che avessero successo nel prevenire l’infezione delle mucose, per cui la comunità scientifica era molto scettica riguardo all’idea di produrre un vaccino efficace contro il cancro del collo dell’utero. Inoltre, nonostante l’ampia omologia della sequenza degli aminoacidi (>80%) tra le principali proteine della capside di diversi papillomavirus, il genotipo di ogni papillomavirus aveva dimostrato di essere un sierotipo molto diverso, almeno per quanto riguarda gli anticorpi sviluppati contro la struttura del virus originale. Sembrava quindi probabile che ogni vaccino contro il papillomavirus avrebbe protetto dai tipi di virus inclusi nel vaccino. Nel 1985 è stato fatto un decisivo passo in avanti verso lo sviluppo del vaccino quando si è firmato un accordo tra Università del Queensland, CSL e Merck per consentire alla Merck di sviluppare su licenza un vaccino contro il cancro del collo dell’utero utilizzando la tecnologia delle particelle simili al virus da noi sviluppata. Questo progetto è stato sostenuto in modo particolare dalla Dott.ssa Kathrin Jansen della Merck.

Attualmente sono disponibili due vaccini per prevenire il tumore delle cervice uterina, entrambi basati sulla tecnologia delle particelle simili a virus sviluppata da Jian Zhou nel 1991. Il Gardasil, prodotto dalla Merck, comprende particelle VLP che sono prodotte da lieviti ricombinanti e corrispondono a due tipi di papillomavirus umano (HPV16 e HPV18) responsabili di circa il 70% dei tumori del collo dell’utero e a due tipi (HPV6 e HPV11) responsabili del 90% delle verruche genitali. Il Cervarix, prodotto dalla Glaxo Smith Kline (GSK), comprende particelle VLP che sono prodotte in cellule di insetto attraverso il baculovirus ricombinante e che corrispondono ai virus HPV16 e HPV18. Sono state condotte numerose sperimentazioni cliniche dei due vaccini messi in commercio su donne sessualmente attive, di età compresa tra i 18 e i 26 anni. Queste sperimentazioni hanno mostrato che i vaccini hanno un’efficacia del 100% nel prevenire non solo le infezioni da PV umani ad alto rischio contenuti nel vaccino, ma anche nel prevenire le lesioni precancerogene della cervice e le lesioni esterne anogenitali che ne derivano, comprese le verruche attribuibili alle varietà del PV umano contenuto nel vaccino. I vaccini proteggono dall’infezione ma non hanno effetto terapeutico sulle infezioni in corso. Le sperimentazioni cliniche hanno dimostrato che sono sicuri e nei più di 29 milioni di somministrazioni eseguite al mondo negli ultimi due anni si sono avuti come effetti collaterali soltanto dolore e gonfiore locale, con qualche caso sporadico di reazione allergica. Tra i soggetti immunizzati, che non avevano avuto precedenti contatti con il tipo di papilloma virus del caso, si sono avute risposte praticamente uguali per entrambi i vaccini.

Le risposte massime degli anticorpi dopo tre immunizzazioni sono gradualmente diminuite dopo i primi due anni e si sono quindi stabilizzate a un livello molto superiore al livello medio osservato in risposta alle infezioni naturali, fatto che suggerisce che questi vaccini forniranno una protezione a lungo termine contro le infezioni da HPV e il cancro della cervice uterina. Gli attuali vaccini possono prevenire il 70% delle patologie della cervice uterina causate dai due tipi di HPV cancerogeni presenti nel vaccino, HPV16 e HPV18, pur se non ci sono ragioni per non aggiungere altri tipi e arrivare così al 100% di copertura.

Prerequisito per il buon esito della vaccinazione contro il tumore del collo dell’utero è che questa sia eseguita prima che le donne siano esposte al virus. Occorre pertanto che la Sanità pubblica introduca programmi di vaccinazione in molte nazioni per garantire l’immunizzazione di routine di tutte le dodicenni. Il mio attuale coinvolgimento nella presentazione di programmi di vaccinazione si propone di dimostrare che questi vaccini possono essere utilizzati in modo efficace nei paesi emergenti. La sfida è quella di poter somministrare tre dosi di vaccino alle dodicenni dei paesi in cui si sa davvero poco del tumore del collo dell’utero e in cui non esistono misure di sanità pubblica a tutela delle adolescenti. Insieme con colleghi australiani e locali, abbiamo organizzato programmi di vaccinazione nelle aree rurali del Nepal e stiamo per dare avvio a un altro programma nella Repubblica di Vanuatu. In queste nazioni, che dipendono fortemente dall’agricoltura di sussistenza e dal turismo, l’incidenza del tumore del collo dell’utero è molto elevata e poche sono le prospettive di instaurare adeguati programmi di screening a breve termine. Ritengo che il mio lavoro sui vaccini per la profilassi del tumore del collo dell’utero, che è iniziato in ambito scientifico-tecnologico e si è trovato poi ad affrontare la sfida di riuscire a trovare e coinvolgere partner commerciali, non sarà davvero completo fino a che non riusciremo a mettere in atto in tutto il mondo programmi intesi a difendere le donne dalle patologie della cervice uterina. Gli attuali vaccini possono essere soltanto una parte di tale programma ed è necessario realizzare uno screening per proteggere le tante donne, probabilmente venti milioni, che hanno già in corso un’infezione da HPV ad alto rischio e che, senza trattamento, morirebbero a causa del cancro che potrebbe insorgere come conseguenza del progredire di tale infezione.

L’obiettivo iniziale della mia ricerca era quello di sviluppare vaccini terapeutici per il trattamento di pazienti affette da tumore del collo dell’utero e da lesioni precancerogene rilevabili con i programmi di screening. Non ho scordato questo obiettivo. Utilizzando sistemi di modelli a cui ho potuto accedere grazie alla collaborazione di colleghi di tutto il mondo, abbiamo sviluppato strategie per la sperimentazione di potenziali vaccini per il trattamento di infezioni cutanee persistenti e, soprattutto, infezioni da papillomavirus. Grazie a questo lavoro, abbiamo imparato molto dell’immunologia della pelle e abbiamo scoperto che i nostri approcci semplicistici all’immunoterapia erano davvero troppo semplici. I vaccini possono essere utilizzati per sviluppare il giusto tipo di risposta immunologica negli animali e negli esseri umani. Tuttavia, le cellule che effettuano la reazione immunologica pare che siano in grado, o forse siano indotte, a ignorare le cellule epiteliali che esprimono proteine virali. Ciò avviene attraverso una complessa gamma di meccanismi di regolazione e la mia attuale ricerca si concentra sulle sperimentazioni sia di laboratorio sia cliniche delle potenziali strategie per superare il meccanismo di regolazione e quindi permettere lo sviluppo di vaccini che possano essere somministrati in tutta sicurezza a giovani donne con infezione persistente da papillomavirus. Spero che questi vaccini possano essere impiegati nei paesi in via di sviluppo e aiutino a ridurre il grave impatto del tumore del collo dell’utero che continuerà a essere presente in quelle parti del mondo per almeno altri 50 anni.

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