Discorso di ringraziamento – Roma, 16.11.1994

Italia

Norberto Bobbio

Premio Balzan 1994 per il diritto e la scienza delle politiche (governo dei sistemi democratici)

All’eminente professore, filosofo e storico del diritto che, attraverso il suo insegnamento, i suoi valori e il suo impegno civile, ha fornito un contributo eccezionale allo studio teorico e pratico del governo dei sistemi democratici.

Alla fine della mia vita non potevo desiderare un onore più grande che quello di ricevere un premio ispirato, come leggo nello Statuto della Fondazione che me lo ha attribuito, ad “alti concetti umanitari”, e mira “a incoraggiare nel mondo, senza distinzione di nazionalità, di razza e di religione, la cultura, le scienze e le più meritevoli iniziative umanitarie, di pace e di fratellanza”.

Le discipline per le quali mi è stato conferito sono il diritto e la scienza politica, con particolare riguardo al governo della democrazia. Se sia meritato o no, non tocca a me dire. Se dovessi giudicarmi, paragonandomi a tanti altri studiosi, che hanno percorso su per giù la mia stessa strada, dovrei esprimere qualche dubbio. Anche perché, quando si è raggiunta una certa età, è temerario porsi traguardi ulteriori. Bisogna accontentarsi di considerare l’opera compiuta. Ma nel momento di fare il bilancio finale, hai l’impressione che l’opera più bella, che hai vagheggiato da tanto tempo, l’opera conclusiva, è quella che non hai mai scritto e che, giunto al limite, non scriverai più, perché non ne avrai né il tempo né la voglia né l’energia sufficiente. Non posso fare altro che sospendere il giudizio, e rimettermi al giudizio altrui. Il vostro giudizio, di cui vi ringrazio, che mi ha lusingato, e anche un po’ intimidito, tuttavia mi incoraggia a continuare, nonostante le difficoltà, e a spostare ancora un po’ più avanti il limite ultimo.

La mia opera è fatta di tanti frammenti sparsi in libri, articoli, discorsi, su argomenti diversi se pur collegati, dai quali io stesso faccio una certa fatica a trarne un disegno generale. Ma che abbia dedicato una buona parte dei miei scritti allo studio dei principi e dei fini, della storia, dell’attualità e del futuro, della democrazia, è un fatto difficilmente confutabile, che qualsiasi osservatore imparziale può constatare dando un’occhiata alla mia bibliografia.

Appartengo a una generazione che ha avuto la sua educazione filosofica, letteraria, politica, in quella che è stata chiamata “l’era delle tirannie”. Ma ho avuto la fortuna di seguire nella Facoltà di Giurisprudenza di Torino professori come Francesco Ruffini, come Luigi Einaudi, come Gioele Solari, che mantennero libero il loro giudizio su uomini ed eventi anche nel momento più oscuro della storia del nostro paese. Né spenta fu mai in quegli anni la voce ammonitrice di Benedetto Croce. Quando il fascismo stava per cadere, sapevamo bene che il nostro compito era di prepararci culturalmente allo scopo di rinnovare le nostre istituzioni e restaurare lo Stato liberale e democratico in Italia.

Nel 1944, l’ultimo anno dell’occupazione tedesca, preparai un saggio introduttivo e un’antologia di scritti di Carlo Cattaneo, intendendo rimettere in onore la tradizione repubblicana degli sconfitti del Risorgimento. Feci le prime acerbe prove di giornalista nel quotidiano del Partito d’Azione, “Giustizia e Libertà”, diretto dall’amico Franco Venturi, scrivendo articoli su temi come “Perché la democrazia?” e “Quale democrazia?”. Il primo saggio pubblicato su una rivista, del Partito d’Azione anch’essa, “Lo Stato moderno”, era intitolato Stato e democrazia. Nel 1946 feci conoscere l’opera di Popper sulla società aperta e i suoi amici, allora pubblicata. Incaricato di tenere la prima prolusione all’anno accademico dopo la guerra, nel 1946, all’Università di Padova, scelsi il tema La persona e lo Stato, dove la democrazia era presentata come quella forma di governo che si fonda sul rispetto della persona umana contro ogni forma di totalitarismo. Lo stato totalitario era la nostra ossessione. La democrazia, oltre che la nostra speranza, il nostro impegno. Riconosco che avevo allora la passione e insieme la ingenuità del neofita. Con gli studi che seguirono, mi illudo di aver perso, almeno in parte l ‘ingenuità, ma ritengo di aver mantenuta viva, nonostante i molti disinganni, lontani e vicini, la passione e, insieme con la passione, la fiducia in un mondo in cui la democrazia possa espandersi e rafforzarsi non solo all‘interno dei singoli stati ma anche nel sistema internazionale. Sappiamo per esperienza che nel momento stesso in cui la democrazia si espande rischia di corrompersi, perché si trova continuamente di fronte ad ostacoli non previsti che deve superare senza alterare la propria natura, ed è costretta a adattarsi continuamente all’invenzione di nuovi mezzi di comunicazione e di informazione della pubblica opinione, che possono essere usati tanto per infonderle nuova vita quanto per mortificarla.

 Al tema degli ostacoli non previsti, e di conseguenza delle promesse non mantenute, ho dedicato uno dei miei libri più noti, non so se più letti, Il futuro della democrazia, apparso nel 1984. Alla fine della prefazione scrivevo che contro i nemici di sinistra e di destra continuavo a confidare nella forza delle buone ragioni. La storia aveva smentito l’autore di un’opera intitolata Come finiscono le democrazie. Le democrazie erano destinate a finire di fronte alla potenza invincibile del totalitarismo comunista. E’ accaduto esattamente il contrario. Non voglio dire che le democrazie nel mondo di oggi godano ottima salute. Ma gli stati totalitari, l’uno dopo l’altro, sono caduti. Nella prefazione alla seconda edizione del 1991 non potevo sottrarmi alla constatazione che il numero degli stati democratici nel mondo era rapidamente aumentato. Se pure con cautela doverosa di chi nella sua lunga vita ha assistito a un continuo succedersi di vittorie e di sconfitte della libertà, mi domandavo se non fosse avvenuto il passaggio dall’era delle tirannie all’era delle democrazie.

Ed ecco che, mentre stavo scrivendo queste pagine, arriva sul mio tavolo di lavoro la traduzione italiana di un libriccino francese che ha per titolo La fine della democrazia, e comincia con questa domanda: “Sopravviveranno le democrazie sino al 2000?”. Non vorrei sbagliare, ma è una caratteristica dei periodi di decadenza il vezzo di abbandonarsi, compiacendosene o deplorandola, all’idea della fine. Ieri abbiamo sentito parlare addirittura della fine della storia. L’altro ieri, di fine della rivoluzione. Da alcuni anni, di fine del mito del progresso. Chi ritiene che sia cominciata l’età post-moderna, proclama la fine della modernità. L’idea della fine della democrazia rientra perfettamente in questo nuovo millenarismo. C’era da aspettarselo. La fine della democrazia è però soltanto una congettura esattamente come quella opposta. Non ho argomenti razionali sufficientemente fondati per difendere la prima ipotesi piuttosto che la seconda. Soltanto, se cerco di seguire non la mia debole facoltà di capire e quella ancor più debole di prevedere, ma la mia forte facoltà di desiderare e, nonostante tutto, di sperare, non ho dubbi sulla risposta.

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