Sintesi delle mie ricerche – Roma, 23.11.2006 Forum

Regno Unito

Quentin Skinner

Premio Balzan 2006 per la storia e la teoria del pensiero politico

Per la sua formulazione di una metodologia innovativa per lo studio della storia delle idee, il suo fondamentale contributo alla storia del pensiero politico e le sue penetranti riflessioni sulla natura della libertà.


Sono uno storico della filosofia e più in particolare della filosofia morale e politica, e la società che ho principalmente studiato è quella europea, nella prima età moderna. All’interno di questo periodo storico ho messo a fuoco due episodi particolarmente significativi. Uno è la rivoluzione inglese della metà del diciassettesimo secolo, il momento in cui le teorie della sovranità popolare sono state articolate per la prima volta nel pensiero politico anglofono. Qui il mio oggetto principale di studio è stato lo scrittore politico più importante di questo periodo epocale, Thomas Hobbes, alla cui teoria dello stato ho dedicato due dei miei libri. L’altro periodo nel quale mi sono specializzato è stato quello del Rinascimento italiano. In questo caso, ho scritto soprattutto sul recupero degli antichi ideali repubblicani di cittadinanza e autogoverno, studiando il ridispiegarsi di questi valori nell’arte così come nella teoria politica rinascimentale. Ho pubblicato un libro dedicato agli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, che ho inteso come una celebrazione della visione repubblicana secondo la quale l‘ideale del bene commune può essere raggiunto se – e soltanto se – il commune funge da giudice supremo dello stesso. Ho pubblicato inoltre un libro sulla teoria politica di Machiavelli, che tratto essenzialmente come un allievo, ed allo stesso tempo come uno commentatore satirico, del pensiero morale e politico romano antico. Forse mi è permesso di fare un accenno al fatto che una collezione di miei saggi su questi argomenti è stata ora pubblicata in italiano col titolo di Virtù rinascimentali

Oltre a scrivere di questi due diversi periodi storici, mi sono interessato al rapporto fra essi, e in particolare all’impatto della cultura italiana del Rinascimento sull’Europa settentrionale. È vero che il concetto di Rinascimento è stato recentemente oggetto di un esame critico, ed io stesso ho contribuito a elaborare un punto di vista più scettico in merito – in modo particolare nel mio primo libro, che è pubblicato in italiano con il titolo Le origini del pensiero politico moderno. Il primo dei due volumi di questo lavoro è intitolato Il Rinascimento, ma uno dei miei obiettivi principali è stato criticare la visione secondo cui, come la espone Jacob Burkhardt nel suo classico studio, una Kultur distinta sia esplosa improvvisamente nel Quattrocento in Italia. Le componenti di questa cultura, ho cercato di evidenziare, erano in effetti il prodotto di un periodo molto lungo di consolidamento delle città-stato, che hanno acquisito ricchezza e potenza nell’Italia del nord fin dall’inizio del Duecento. 

Malgrado il mio punto di vista sul Rinascimento come risultato di una longue durée storica, continuo a credere che possiamo parlarne propriamente come di un periodo in cui le discipline antiche sono state fatte rivivere e nuovi ingredienti sono stati  aggiunti, per la prima volta, alla cultura europea. Fra questi, uno dei più importanti è stato il recupero dell’arte classica della retorica, che è venuta ad occupare un posto chiave nei programmi di studio delle scuole e delle università in Italia e, successivamente, nell’Europa settentrionale. L’importanza speciale del rifiorire nel Rinascimento dell’ars rhetorica era che essa offriva un modello di discussione molto differente da quello insito nella filosofia scolastica. Il metodo degli Scolastici consisteva nel sollevare un problema, offrire una risposta preliminare, esaminare possibili obiezioni e arrivare ad un risultato conclusivo. I retori, al contrario, puntarono a mostrare che – come, ancora, facciamo dire loro in modo aneddotico – ci saranno sempre almeno due facce in ogni questione e sarà sempre possibile, almeno in ciò che essi hanno descritto come le scienze morali, offrire una difesa razionale a più punti di vista contrapposti. 

Uno dei miei obiettivi principali in Le origini del pensiero politico moderno era di seguire il processo tramite il quale l’arte della retorica è divenuta centrale fra le discipline culturali. Ho poi dedicato il mio successivo progetto di ricerca ad esaminare come questo stile di ragionamento si è trovato ad essere screditato e sorpassato. Con l’ascesa della cosiddetta “nuova filosofia”, nel diciassettesimo secolo, è emerso un ideale molto differente di discussione nel quale – come nei sistemi di Descartes e di Hobbes – un metodo di ragionamento deduttivo veniva impiegato per arrivare a conclusioni che, si asseriva, potevano collocarsi al di là di ogni disputa razionale. 

Ho tentato, nel mio Reason and Rhetoric in the Philosophy of Hobbes, di seguire i cambiamenti culturali profondi che hanno accompagnato l’applicazione di questo modello alle questioni di filosofia morale e politica. Una conseguenza, ho cercato di mostrare, era che il concetto di “ragione” ha subito un processo di reificazione e di trattamento in termini interamente transculturali. Hobbes, per esempio, sostiene di poter dimostrare oltre ogni dubbio gli assunti della sua filosofia morale. Insiste, cioè, che è possibile stabilire la loro razionalità con mezzi puramente dimostrativi, senza prestare la minima attenzione alle tecniche di persuasione, a metodi per far sì che le nostre conclusioni appaiano autorevoli, o a qualsiasi altro espediente che i teorici della retorica del Rinascimento avevano individuato. L’arte del ragionamento, ribatte Hobbes, non è soltanto indipendente da queste tecniche, ma è anche sufficiente a impedire loro di avere qualsiasi effetto oppositivo. 

Il mio Reason and Rhetoric propone due osservazioni su questo sviluppo storico. Una è che l’immagine ideale della discussione morale e politica a cui esso ha dato adito era in ogni caso una forma di auto-inganno. Anche nel caso di un esponente così devoto del ragionamento scientifico come Hobbes, troviamo che egli usa ancora la panoplia completa delle tecniche suggerite dai retori per dare forza di convincimento alle proprie tesi. Mentre la mia seconda, e più generale, argomentazione è che rimaniamo ancora oggi troppo propensi a sostenere questa visione auto-ingannevole di cosa voglia dire dibattere di politica e moralità. Ci piace ancora fare una distinzione categorica fra “mera retorica” e “forza dell’argomento”, senza riconoscere sempre le implicazioni del fatto che questa distinzione è essa stessa una costruzione retorica. 

In breve, uno dei motivi per cui mi sono tanto interessato alla storia della retorica è che essa ci fornisce, credo, un mezzo per diventare più consapevoli di noi stessi e del modo peculiare, e a volte limitato, in cui conduciamo i nostri dibattiti morali e politici. Sono giunto a ritenere che siamo troppo riluttanti a riconoscere l’intuizione centrale della tradizione retorica: che le conclusioni a cui arriviamo sono sempre sottodeterminate dalle ragioni che adduciamo in loro favore, e che di solito colmiamo queste lacune con una varia gamma di tecniche manipolative. Sono arrivato persino a ritenere che, se dovessimo riesaminare le nostre strategie argomentative con questa intuizione in mente, potremmo dare a noi stessi una lezione quanto mai necessaria di maggior tolleranza morale e politica. 
 Anche se la mia ricerca è stata sempre centrata sulla prima età moderna della storia europea, sono stato spinto dal desiderio di usare questi materiali storici per illuminare un certo numero di questioni più filosofiche – due in particolare – alle quali sono ancor più interessato. Una concerne la storia ed il carattere dello stato moderno. Lo scopo trasversale del mio primo libro era di capire in quale periodo e per mezzo di quali processi storici il concetto di stato sovrano è venuto ad essere la matrice del discorso politico moderno. Più recentemente, ho provato ad indicare che abbiamo ereditato due significati rivali del concetto di stato. Secondo la tradizione repubblicana, lo stato è il nome che diamo al corpo sociale organizzato in modo tale da governarsi. Ma secondo una tradizione rivale di diritto pubblico, lo stato è invece il nome di una persona ficta, la cui l’autorità è rappresentata da un legislatore o da un’assemblea. Alcuni degli enigmi che circondano l’idea di stato, ho cercato di evidenziare, provengono dal fatto che non sembriamo mai aver deciso, alla fine, quale di questi due significati differenti desideriamo sottoscrivere.

Il secondo, e strettamente collegato, oggetto filosofico a cui lungamente mi sono dedicato è quello della libertà politica. Che cosa significa affermare che, come cittadini degli stati, siamo allo stesso tempo portatori dei diritti civili e delle libertà ? Questa è la domanda che affronto in uno dei miei libri più recenti, disponibile in italiano con il titolo La libertà prima del liberalismo

Vorrei parlare un po’ più in dettaglio del mio punto di vista sulla libertà politica. Una ragione per farlo è che mi sono cimentato a lungo con questo concetto – almeno dall’inizio degli anni Ottanta, quando ho tenuto le Tanner Lectures all’Università di Harvard intitolate I paradossi della libertà politica. Un’ulteriore ragione è che, quando il Comitato Generale Premi Balzan ha annunciato la motivazione per cui mi ha assegnato questo premio immensamente generoso, questo è stato uno dei due aspetti della mia ricerca che ha messo in particolare evidenza.
La mia preoccupazione principale nello scrivere sul concetto di libertà è stata di esaminare l’affermazione, centrale nella teoria politica contemporanea, che la nostra libertà come cittadini è essenzialmente costituita dal fatto che non subiamo interferenze nel perseguimento dei fini ultimi che abbiamo scelto. La libertà è giunta ad essere definita, cioè, in  termini negativi, come assenza di interferenze: fintantoché non siamo impediti nell’esercizio delle nostre facoltà, siamo considerati essere in completo possesso della nostra libertà. 

 Uno dei miei obiettivi è stato quello puramente storico di indicare che questa visione della libertà, che sembra a noi così naturale, era in origine altamente polemica ed era diretta contro un significato rivale che, in gran parte, si è perso di vista con lo stabilirsi dell’egemonia del pensiero politico liberale. Secondo questa visione, più antica, la libertà non è tanto un attributo delle azioni quanto il nome di una condizione, la condizione del liber homo in contrapposizione allo schiavo. Questa è la visione della libertà individuale che incontriamo nella filosofia morale romana e nel Digesto del diritto romano. Attingendo da queste fonti imprescindibili, gli scrittori repubblicani del Rinascimento, a loro volta, hanno reso centrale questa concezione nel loro ideale costituzionale del vivere libero. Come ho cercato di mostrare nel mio libro su Machiavelli, uno dei suoi contributi che hanno maggiormente influenzato la teoria politica moderna è offerto dalla sua analisi, nei Discorsi, della distinzione chiave fra libertà e schiavitù dei cittadini, così come degli stati. 
Secondo questa tradizione, originariamente classica, la mancanza di libertà sofferta dagli schiavi non è necessariamente dovuta al loro essere impediti o costretti. Piuttosto, essa è dovuta soprattutto al loro dipendere dalla volontà arbitraria di qualcuno che può comportarsi verso di loro, impunemente, come gli pare e piace. Inoltre, questo stato di dipendenza dà adito a sua volta, secondo questa tradizione di pensiero, ad ulteriori vincoli alla libertà di coloro che vivono in tale stato di servile. Non appena essi cominciano a riflettere sulla loro condizione, tendono ad auto-censurarsi, per limitare ed incanalare il loro comportamento allo scopo di accertarsi che il potere arbitrario a cui sono soggetti non sia impiegato contro di loro in modi lesivi. 

Uno dei miei interessi a scavare in questa tradizione di pensiero è puramente storico: comprendere che la libertà è stata contrastata non tanto con atti di interferenza quanto piuttosto con rapporti di dominio e dipendenza, ci aiuta a capire meglio la tradizione repubblicana di teoria politica – che, successivamente, è diventata così importante nelle Rivoluzioni francese ed americana. Tuttavia, voglio anche sostenere che questo modo di pensare alla libertà è di importanza filosofica attuale, ed in almeno due sensi. Serve in primo luogo a sfidare l’opinione comunemente accettata secondo cui siamo liberi di esercitare le nostre facoltà fino a quando non ne siamo impediti. Secondo la teoria cui sto accennando, invece, possiamo essere non-liberi anche in assenza di specifiche interferenze: il mero fatto di vivere alla mercè di altri è quello che in sostanza ci toglie la nostra libertà. In secondo luogo, riconoscere che rapporti di forza disuguali di per sé insidiano la libertà, può aiutarci a riconsiderare la nostra condizione politica attuale. Dobbiamo diventare consapevoli, io penso, del grado, in cui oggi ci troviamo, di dipendenza da forme di potere che non sono regolate da leggi a cui abbiamo dato il nostro consenso. Sono giunto alla conclusione pessimistica che, se dovessimo coltivare questa consapevolezza, potremmo trovarci a pensare che siamo molto meno liberi nelle moderne società democratiche di quanto ci piace supporre. 

Ho accennato al fatto che il Comitato Generale Premi Balzan ha indicato due motivi specifici per assegnarmi questo premio. Oltre a fare riferimento ai miei scritti sulla libertà, ha parlato (cito) della mia formulazione di “una metodologia distintiva per lo studio sulla storia delle idee”. Vorrei concludere con una parola su questo ulteriore aspetto della mia ricerca.
Ho provato a presentare i miei punti di vista sul metodo storico in un libro tradotto in italiano come Dell’interpretazione. Posso iniziare nella maniera migliore il mio il discorso sull’interpretazione dei testi, tracciando una distinzione che da molto tempo è di importanza centrale nella teoria del significato: la distinzione fra semantica e pragmatica del linguaggio. Parliamo dei segni come portatori di significati convenzionali; ma parliamo anche di significare qualcosa, dicendo qualcosa. Quando studiamo il fenomeno del significato, in altre parole, possiamo focalizzare la questione semantica, cosa un certo segno può significare, oppure la questione pragmatica, cosa può voler dire qualcuno usandolo. 

Penso che sia corretto dire che l’ermeneutica tradizionale si è preoccupata in modo assolutamente prevalente della prima alternativa. E così ha fatto anche il metodo decostruttivista di interpretazione dei testi, oggi di moda. Mentre l’ambizione principale di questi scettici post-strutturalisti è stata di persuaderci che la ricerca sui significati conduce soltanto a un groviglio di ambiguità, la domanda che ha continuato a preoccuparli è stata come, e soprattutto se, tali significati possano essere recuperati. Al contrario, io ho preferito focalizzare non l’elemento semantico, ma quello pragmatico nell’interpretazione. Ho perorato la causa di un metodo di analisi testuale che cerchi soprattutto di indagare ciò che gli scrittori che studiamo possono aver inteso dire con quello che hanno detto, e che cosa essi possono aver fatto, scrivendo ciò hanno scritto. 

Il motivo per cui mi sono focalizzato non sui significati ma sugli “atti linguistici” è stato un desiderio di sfidare il modo in cui i testi classici nella storia delle idee sono stati abitualmente interpretati. Troppo spesso, ritengo, ci si è accostati ad essi con il presupposto che, se soltanto li avessimo letti con cura sufficiente, ci avrebbero svelato i loro segreti. Ma mentre questo metodo può permetterci di sapere che cosa i loro autori stanno dicendo, non può permetterci mai di scoprire che cosa stanno facendo. E se desideriamo impadronirci di qualunque genere di discussione, questo ulteriore tipo di comprensione è certamente indispensabile. Quando qualcuno ci mette di fronte a un’argomentazione, dobbiamo sapere se, nello stesso tempo, sta sostenendo un certo punto di vista accettato o se lo sta mettendo in discussione, se lo sta lodando o se lo sta criticando, se lo sta trattando in modo satirico, se lo sta passando sotto silenzio in modo derisorio o se lo sta deliberatamente ignorando, o altro. Quando, in breve, cerchiamo di interpretare una qualsiasi espressione, dobbiamo prestare attenzione, il più seriamente possibile, alle implicazioni della celebrata tesi di Wittgenstein secondo cui le parole sono anche azioni. 
Ma quale, obiettano i miei critici, sarebbe il senso di adottare di tale metodo? Il senso è che migliora la nostra comprensione storica. I grandi capolavori della nostra tradizione filosofica sono artefatti culturali, non diversamente dalle altre grandi opere d’arte, e se desideriamo comprenderli non abbiamo altra scelta che affrontarli storicamente. Nel caso dei lavori filosofici, ciò significa recuperare la natura dell’intervento, che si può dire essi abbiano costituito, nei dibattiti filosofici ed ideologici del loro tempo. Per giungere a questo genere di comprensione, dobbiamo disporli all’interno del contesto intellettuale nel quale e per il quale essi originariamente sono stati scritti, trattandone non in modo isolato, ma come contributi ad un più ampio dialogo. Soltanto con questi mezzi concettuali possiamo sperare di capire perché i testi che studiamo hanno una loro specifica identità e caratterizzazione, e in definitiva perché sono stati scritti. 

Un modo di riassumere il mio metodo potrebbe essere, allora, dire che mi sto battendo perché la storia delle idee sia scritta come la storia di una attività, proprio come qualunque altra attività – agricoltura, guerra, governo e così via – che gli storici hanno da sempre studiato. Mi piacerebbe che il punto di vista tradizionale sul canone dei principali sistemi filosofici fosse sostituito da uno studio più generale dell’attività discorsiva. Il risultato sarebbe la ricostruzione dello spettacolo delle differenti società che comunicano al loro interno sulle molte e diverse questioni che sono sembrate loro importanti nei diversi periodi storici. Otterremmo così una storia della filosofia con un carattere genuinamente storico. 
Il mio tentativo di mettere in pratica questi precetti ha fatto sì che il mio lavoro fosse messo all’angolo in alcuni ambienti come il più banale antiquariato. Certamente ritengo che dovremmo cercare di rendere più possibile dotti gli studi sulla nostra eredità intellettuale. Altrimenti saranno migliori di poco rispetto alla propaganda. Ma l’accusa di antiquariato mi fa un po’ sorridere, dato che ho sempre ritenuto che la storia in sé non è mai sufficiente e che i nostri studi storici devono, se possibile, avere una certa rilevanza pratica. 

Concedetemi di concludere illustrando molto brevemente che cosa ho in mente. La mia motivazione di fondo a voler comprendere le idee morali e politiche che abbiamo ereditato è di contribuire a pensare alla nostra condizione attuale in modo nuovo. Possiamo dire anche solo di comprendere i concetti di base che impieghiamo nel dibattito politico? Ho cercato di sostenere che, nel caso del concetto di stato, probabilmente non possiamo. Spesso e volentieri siamo eccessivamente pronti ad adoperare concetti storici contingenti, come “diritti umani”, come se avessero una qualche validità universale? Io temo di sì. Abbiamo limitato eccessivamente il nostro modo di pensare a determinati concetti? Ho cercato di sostenere che, nel caso della libertà politica, è possibile ritenere di sì. Questo è il tipo di consapevolezza che un approccio storico alle teorie morali e politiche può aiutarci a conseguire, e lo considero come scopo ultimo e giustificazione finale della mia impresa. Benedetto Croce ha notoriamente rilevato che tutta la storia è storia contemporanea, e ritengo che egli avesse in mente questo stesso tipo di concetto. Il tema su cui vorrei anch’io, se posso, lasciarvi a riflettere, è che la nostra eredità intellettuale esiste per offrirci non soltanto un’erudizione, ma una guida.

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